Premio Strega 2020 – Intervista a Daniele Mencarelli
Dopo il successo di La casa degli sguardi (Mondadori) Daniele Mencarelli torna con un romanzo edito sempre da Mondadori, Tutto chiede salvezza,vincitore del Premio Strega Giovani e nella sestina del Premio Strega 2020.
È il 1994 e Daniele ha vent'anni, quando una sera d'estate, in seguito a un’esplosione incontrollata di rabbia, viene portato in pronto soccorso e sottoposto a sette giorni di trattamento sanitario obbligatorio. La reclusione forzata all’interno di un ospedale psichiatrico sarà un modo per il giovane protagonista per entrare in contatto con una realtà diversa, fatta di uomini segnati dalla malattia mentale coi quali instaurerà un rapporto di fratellanza, ma diventerà pure la storia di un'anima che, dopo la discesa nell'abisso più profondo, riuscirà a ritrovare se stessa e la forza per chiedere salvezza.
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Come il precedente, anche questo romanzo è autobiografico. Il protagonista si chiama Daniele, come lei. Cosa ha comportato dal punto di vista emotivo scrivere la sua storia, rivivere eventi passati che l’hanno fatta soffrire, denudarsi e affrontare nuovamente il suo vissuto e consegnarlo ai lettori?
Di fondo c’è stata la volontà di costruire una serie di romanzi, due sono usciti mentre l’ultimo, se tutto va bene, dovrebbe uscire nel 2022, con un personaggio che avesse il mio nome. Faccio questa premessa per sottolineare la distanza che deve esserci, necessariamente, tra autore e narrazione. Detto questo il coinvolgimento è stato totale, e spesso doloroso, ma più forte è stata la volontà di offrire queste vicende a chi vive oggi certe difficoltà, sofferenze.
I libri che amo sono stati fondamentali per la mia vita, la speranza è che i miei lo possano essere altrettanto per tutti quelli che vorranno leggerli.
Il punto di partenza è l’esperienza da lei vissuta nel giugno del 1994, quando, in seguito a una violenta esplosione di rabbia, fu costretto a sette giorni di trattamento sanitario obbligatorio. Ci narra dell’impotenza della sua famiglia, soprattutto di sua madre che ripone in questo ricovero forzato grandi speranze, perché come dice in un passo del romanzo «Daniele va avanti a tristezza, non sapemo più che fa pè levattela de dosso». Perché un ragazzo di vent’anni non riesce a essere felice e spensierato come gli altri coetanei?
È una questione di sguardo. Ci sono individui che guardano le cose e ne intuiscono costantemente il limite, la loro natura precaria, questo li fa soffrire nella stessa misura in cui amano. Individui che non riescono a credere veramente ai racconti del mondo. Questo modo di guardare obbliga a una scelta, o viverlo come un dono, e condividerlo con gli altri, o farne una maledizione da cui non si può sfuggire.
Molto spesso a soffrire sono le persone che ci stanno accanto. Ha mai provato sensi di colpa nei confronti della sua famiglia?
Ho provato per tanto tempo sensi di colpa devastanti, forse ancora non mi sono perdonato del tutto.
Leggendo il romanzo si prende atto di un’incapacità dei medici di dialogare con i pazienti, di provare empatia e di occuparsi di loro con distacco, mettendo da parte l’aspetto umano. Secondo lei quale dovrebbe essere il vero rapporto medico-paziente?
Il mio romanzo non è un atto d’accusa contro la psichiatria, o la sanità pubblica, è semplicemente il racconto di un ragazzo che ha la sfortuna di ritrovarsi di fronte due medici stanchi e disattenti. Io credo che la cura debba necessariamente fondersi sue due elementi: la dedizione, come ovvio che sia, e l’empatia, la disponibilità a condividere veramente un momento dialogo e ascolto. Il sentirsi accolti da chi dovrebbe curarci non è un fattore secondario, semmai fondativo nel rapporto medico-paziente.
A causa della recente pandemia abbiamo compreso che gli esseri umani non sono in realtà padroni di nulla. Questo dovrebbe forse indurci a dar valore ad altre cose, ad avere altre priorità. Quali sono le sue?
Non ho avuto bisogno della pandemia per vivere la certezza che nulla ci appartiene veramente, come dicevo poc’anzi appartengo a quella parte di umanità che non ha modo di dimenticare la propria natura. Vedere da parte di moltissime persone una diversa consapevolezza di sé mi ha colpito, anche se avevo la certezza che a fine pandemia tutto sarebbe tornato come prima. La priorità, l’unica che conta veramente, quella che l’arte ci offre nelle sue espressioni più riuscite, è tenere sempre vivo il dialogo con la nostra essenza. Precaria. Ma non meno meravigliosa.
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Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega?
Aver vinto lo Strega Giovani mi ha reso il più tranquillo della sestina, per la vittoria finale ci sono autori fortissimi, ma il mio sento di averlo già fatto. Siamo appena ritornati da un tour in giro per l’Italia per presentare i libri finalisti. Siamo stati bene assieme, alla competizione abbiamo preferito il dialogo, la leggerezza. Visto da dentro, il Premio Strega è molto diverso da come appare. Noi italiani siamo bravissimi a calpestare quanto di buono abbiamo per le mani…
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