Premio Strega 2019 – Intervista a Benedetta Cibrario
Benedetta Cibrario è una delle cinque finaliste del Premio Strega 2019 con il suo Il rumore del mondo, edito da Mondadori. Un romanzo storico delicato e intenso al tempo stesso, quello di Cibrario, che va a inserirsi nella tradizione dei romanzi storici che hanno avuto molta fortuna al Premio Strega, soprattutto negli anni Ottanta del secolo scorso, e che pone al centro della narrazione una figura femminile alle prese appunto con il rumore del mondo.
Di questo abbiamo voluto parlare con Benedetta Cibrario nell’intervista per il nostro speciale dedicato al Premio Strega 2019.
Il romanzo storico in Italia ha una tradizione abbastanza importante, pensiamo ad Alessandro Manzoni, Umberto Eco, Maria Bellonci, solo per citarne alcuni anche restando nell’ambito del premio Strega. In che modo ha interagito con questa tradizione? Quali sono gli aspetti che ha recuperato e quelli di cui invece ha sentito l’esigenza di liberarsi?
La prima volta che mi sono appassionata alla scrittura storica è stata leggendo Anna Banti che adopera il racconto storico come uno strumento per indagare la realtà. Ho poi cercato di guardare il modo in cui le scrittrici inglesi contemporanee, da Antonia Susan Byatt a Hilary Mantel, si approcciassero alla realtà e l’ho trovato affascinante. L’uso contemporaneo con un impianto romanzesco classico è fatto di scatti temporali. Nel mio romanzo ci sono i personaggi, se poi però risali, riesci a guardare al contesto. Ho voluto indagare il modo in cui l’Ottocento si raccontava, esplorare la scrittura epistolare, le memorie, i diari. Ho sentito l’esigenza di sperimentare. Dal punto di vista della scrittura il romanzo storico è ben radicato. Potremmo definirlo una sorta di romanzo cinematografico, un racconto per immagini, perché tutto passa per percezioni visive. Sono andata fisicamente a controllare i luoghi, a vedere gli spazi di Torino, dove c’è il giardino di cui parlo nel romanzo. Sono stata ai musei di storia del costume per vedere come si vestivano le donne. Indossavano parrucche pesanti, corsetti. Come facevano a muoversi con il peso di quegli abiti addosso? Ogni cosa era per loro una costrizione fisica che finiva col diventare interiore, perché per queste donne far uscire la propria interiorità era davvero “faticoso”.
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Il rumore del mondo è ambientato in due città diverse: Torino e Londra, la città in cui è cresciuta e quella in cui si è trasferita. Quanto ha inciso nella stesura del libro il suo stato d’animo di ‘’forestiera’’ in terra straniera? E oggi quale nazione considera ‘’casa’’ l’Italia o l’Inghilterra?
Ne parlavo proprio oggi con mia madre che è napoletana ma ha vissuto a Torino. Penso al destino di queste donne che si trasferiscono altrove. Quando arrivi in un posto nuovo la prima cosa che sperimenti è la “diffidenza”: tu sei nuovo per loro e loro sono nuovi per te. L’ho sperimentato io, lo ha sperimentato mia madre, l’ho fatto sperimentare ad Anne, il mio personaggio. È un faticare. Indubbiamente mi sento più a casa in Italia, ma sarebbe ingeneroso da parte mia dire che non mi trovo bene in Inghilterra. Lì c’è’ molto rispetto dell’individualità, della privacy, un alto grado di libertà.
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Nel libro troviamo diversi generi di scrittura: dalle epistole al diario, dalla guida di viaggio al racconto vero e proprio per voce di un narratore esterno. Quali sono le ragioni di tale scelta narrativa? Come ha lavorato per riuscire ad amalgamare questi generi diversi?
Ho letto molte lettere scritte da donne inglesi e francesi in quegli anni ed erano troppo belle per non provare a scriverle pure io. Erano naturali perché legate alla vita semplice, quotidiana. Tutto ciò mi ha colpito e ho sentito l’esigenza di sperimentarlo anch’io. Le lettere hanno la funzione di interrompere la narrazione in terza persona, che è più articolata e densa, e di riportare l’immediatezza della storia. Con le lettere e i diari, invece, riesci a entrare nell’intimità più diretta dei personaggi.
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È dalle lettere che tuttavia si evince il vero animo dei protagonisti, perché è grazie a loro che i protagonisti svelano loro stessi o almeno una parte. Nel caso di Anne sembrano essere l’unico legame che le resta con Londra e i propri familiari. Se fosse vissuta oggi, in quest’epoca dominata dalla tecnologia, crede che avrebbe comunque sentito in maniera così forte la lontananza da casa?
Sì. La lontananza da casa uno se la porta dietro comunque. Quando hai voglia di sentire aria di casa hai proprio voglia di sentire aria di casa: gli odori, i rumori… Tutte cose che nessun social è in grado di sostituire.
Anne Bacon colpisce il lettore perché capace di far sentire la propria voce in mezzo al rumore del mondo. Cos’è oggi questo rumore del mondo che continua a provare a coprire la voce delle donne?
È un insopportabile fracasso quello di oggi. Tutti gridano, tutti urlano per camuffare in realtà un grande vuoto. Io ho un’enorme fiducia nelle generazioni future, nel loro ingegno, nella loro voglia di fare, nel loro entusiasmo. Noi donne abbiamo fatto tanta strada e tanta ancora ce n’è da fare. Noi donne siamo capaci di avere un baricentro che sta in più parti. Anche quando lavoriamo riusciamo a pensare ad altro: alla famiglia, alla casa… Siamo un po’ come delle “giocoliere”, siamo in grado di trovare un equilibrio che ci consente di gestire più mondi, perché sappiamo sempre relativizzare.
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La protagonista del romanzo è una donna forte e in grado di emanciparsi, che scopre la propria forza interiore nel momento in cui è chiamata ad adattarsi a una nuova realtà. Tuttavia, sceglie di rimanere legata a un uomo che non ama e da cui non è amata, quindi sembra quasi che per alcuni aspetti resti ancorata ai valori tradizionali. Da cosa nasce questa che all’apparenza potrebbe sembrare una contraddizione?
Non volevo fare uno scarto storico. Nessuna ragazza dell’Ottocento si sarebbe mai separata dal marito. Sarebbe avvenuto uno scandalo. Ho tuttavia reso Anne autonoma nel pensiero. Le donne sono maestre nel restare in situazioni scomode, riescono a starci dentro. Anne non è una ingenua. Legge i giornali, si interessa alla politica, sceglie di fare beneficienza. Ho scelto di farle fare beneficienza per una questione di accuratezza storica, perché molte giovani di famiglia benestante dell’epoca lo facevano.
In un passo del romanzo si legge: «L’estrema metamorfosi dell’amore non è il dolore, ma la sua assenza». L’amore è un’orbita attorno a cui ruotano altri pianeti: passione, dolore, assenza… L’assenza però implica un rifiuto e forse per questo è un po’ più difficile da accettare. Tra una presenza assente (come quella del marito di Anne) e l’assenza di una presenza cosa sarebbe secondo lei meno doloroso?
La cosa più dolorosa in assoluto è capire di non essere amati. È un rospo difficilissimo da mandare giù. Si può sublimare autoconvincendosi che basti il nostro amore per entrambi, ma alla fine è una cosa che ti logora e ti distrugge dentro. Sappiamo che non c’è dolore più forte del dolore d’amore, ma a un certo punto scompare. Magari ci vogliono anni, ma a un certo punto passa e passa in un modo che ha del miracoloso. E resta l’assenza e tu ti chiedi se sia mai stato veramente amore. Nel caso di Anne e di suo marito Prospero, tra loro in fondo non c’è mai stato eros, avrebbe tuttavia potuto esserci un sentimento che avrebbe potuto trasformarsi in affetto fraterno se le cose non fossero andate per come alla fine vanno.
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Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega?
Mi sto preparando facendo altro. Penso anche a come è la mia vita indipendentemente dal Premio Strega. Mi preparo con l’allegria di aver scoperto e conosciuto scrittori meravigliosi con cui è un piacere stare. Penso anche che non è una gara, ma che voglio vivermi il momento.
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