Premio Strega 2018 – Intervista a Carlo D’Amicis
Un intervistatore, un bull, una sweet e un cuckold sono al centro di Il gioco di Carlo D’Amicis.
Il romanzo, edito da Mondadori e finalista del Premio Strega 2018, racconta il sesso dal punto di vista di Leonardo, Eva e Giorgio, che hanno deciso di abbracciare un ruolo preciso nel gioco sessuale e il cui “racconto” viene raccolto da un anonimo intervistatore con l’obiettivo di trarne un libro. Un libro però che non ci sarà.
E proprio dell’intervistatore e delle dinamiche in gioco nel sesso vissuto come adesione a un ruolo prestabilito abbiamo parlato con Carlo D’Amicis.
Mi sembra che ne Il gioco sia in scena l’esibizione dei tre protagonisti dinanzi all’intervistatore. Qual è il ruolo di quest’ultimo lungo la narrazione, ma anche rispetto ai tre che si raccontano?
L’intervistatore rappresenta il punto di vista di chi, con molta curiosità e una buona dose di pregiudizi, si affaccia su una realtà che non conosce. Le sue domande, e le risposte che raccoglie, sono appunti per un romanzo che non leggeremo mai, quasi a testimoniare l’inafferrabilità di un mondo (quello della trasgressione erotica) nel quale il senso comune è messo continuamente in discussione. Anche nello stile, l’intervistatore cerca un’oggettività che, nel confronto con la soggettività magmatica dei personaggi, finisce per risultare implausibile, se non addirittura comica.
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Il primo a parlare all’intervistatore è Leonardo, il bull, colui che fa sesso con una donna mentre il marito impotente resta a guardare. È proprio lui che introduce per primo il tema del sesso come gioco con i suoi rischi. Ma mi sembra che ci siano anche delle regole precise. Qual è la loro funzione nel gioco del sesso?
La trasgressione, per definizione, mira a sovvertire le regole morali e sociali che sono alla base delle nostre relazioni. Produce quindi uno spazio di libertà, nel quale l’ordine e il disordine entrano immediatamente in tensione. Qualunque sia il contesto in cui si realizza, questa tensione è per me estremamente interessante, perché ci fa capire che la domanda fondamentale, specialmente in una società molto più consapevole di un tempo dei propri diritti, non è tanto come conquistare la propria libertà, o come difenderla, ma cosa farne una volta che si è raggiunta. Darsi delle regole è inevitabile, che si parli di individui o di società complesse: la nostra libertà sta nello scegliere quelle più giuste per noi stessi e per gli altri.
Il bull, la sweet e il cuckold sono i ruoli che ricoprono i tre protagonisti. Nell’aderenza a questi, i ruoli sessuali alla fine sono giocati dai protagonisti o sono subiti? Fino a che punto si può parlare di un’identità che si costruisce o ricostruisce nell’esercizio della propria sessualità?
La caratteristica di questi personaggi è in effetti quella di giocare e di essere giocati: impossibile anche a loro stessi capire se siano soggetti attivi o passivi del gioco. Quello che però veramente li distingue è la complicità: anche quando si pongono in conflitto l’uno con l’altro sono consapevoli della loro comune appartenenza a una filosofia di vita basata sul denudamento del sé. In questo senso sì, la loro sfera del desiderio li costruisce come individui, non li dissocia (come il consumo solipsistico di pornografia) da se stessi e dagli altri, ma li spinge a delle relazioni, per quanto particolarissime.
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L’intervistatore in varie occasioni riesce a condurre i protagonisti verso il racconto di aspetti di sé che non attengono al ruolo sessuale che si sono ritagliati, e a restituirci qualche immagine della loro vita come Leonardo, Eva e Giorgio. Queste due dimensioni sono separate come spesso immaginiamo oppure c’è un legame nonostante la volontà dei soggetti di tenerle separate? Quanta consapevolezza c’è di questo mentre si aderisce a un modello/ruolo sessuale?
Il ruolo erotico che questi personaggi si sono ritagliati li separa dal mondo cosiddetto normale, ma non li dissocia da se stessi. Non c’è soluzione di continituà tra le parti del libro in cui i personaggi raccontano la propria vita al di fuori del sesso (ad esempio il rapporto con i genitori, o le esperienze lavorative) e quelle in cui il sesso entra in maniera diretta. E proprio questo il libro vuole dire: che le nostre dark room non sono staccate dal resto della casa. Anche se la gente fa di tutto per tenerle nascoste vivono con noi, dentro di noi, e ci dicono molto di come siamo o di come vorremmo essere.
Il gioco può essere considerato una fenomenologia del sesso raccontata dagli stessi soggetti coinvolti? In che misura è possibile scriverne una?
Il gioco è un libro che si potrebbe riscrivere in molti modi, perché le forme del desiderio sono molteplici (basta vedere le infinite categorie con cui la pornografia in rete cerca di rispondere ai tanti immaginari). Ma alla fine sarebbe sempre lo stesso romanzo, incentrato sul sesso come proiezione del nostro inconscio, come espressione delle nostre ossessioni: l’unico approccio letterariamente possibile, secondo me, al fenomeno dell’erotismo (alla maniera di Lolita o del Lamento di Portnoy, modelli inarrivabili del Gioco).
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Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega?
Con molta serenità, nella consapevolezza che Il gioco contiene un elemento di provocazione, che paga uno scotto per questo e che potrebbe perfino essere respinto a priori da un certo tipo di lettore (o, in questo caso, di non lettore). In questo senso è già una grande soddisfazione essere arrivato in cinquina e aver ricevuto così tanti consensi: segno che coloro disposti al piacere di farsi scandalizzare, come diceva Pasolini, esistono ancora e, fortunatamente, non sono pochi.
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Per la prima foto, copyright: David Len.
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