Premio Strega 2017 – Intervista a Paolo Cognetti
Al centro di Le otto montagne di Paolo Cognetti, edito da Einaudi e finalista al Premio Strega 2017 (poi risultato vincitore, ndr), c’è senz’altro la montagna, intesa non come qualcosa di aleatorio e di simbolico, ma colta in tutta la sua concretezza. Quella montagna che penetra nei protagonisti del romanzo e li trasforma, come solo possono trasformarci la nostalgia e il ritorno in un luogo in cui ci sentiamo davvero a casa e che portiamo dentro di noi anche quando ne siamo lontani.
E proprio da qui abbiamo iniziato la nostra chiacchierata con Paolo Cognetti nell’ambito del nostro speciale dedicato al Premio Strega.
L’inizio di Le otto montagne con un padre e il suo modo spavaldo e caparbio di andare in montagna senza accettare lamentale per la fame né per la fatica mi ha aiutato a ricondurre alla nostalgia il comportamento di un altro padre con le sue gite in montagna. Quello raccontato da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare, un libro che tra le altre cose gioca molto con la memoria e la nostalgia. Al di là del dato biografico relativo ai genitori del suo libro, cos’è per lei la nostalgia per la montagna?
Il padre del mio romanzo e quello di Natalia Ginzburg hanno diverse cose in comune. Anche Giuseppe Levi era uno scienziato, veniva da est (Trieste se non sbaglio), e all'ovest aveva scoperto altre montagne. Perfino la valle di Gressoney che Natalia descrive in Lessico famigliare è proprio la stessa della mia infanzia! Conosco a memoria tutti quei sentieri. La montagna per questi uomini era la giovinezza, il senso di sfida e di avventura dei vent'anni, la scuola di valori morali che poi sarebbero serviti nel vivere in città, nella società civile. La nostalgia della montagna per loro è nostalgia della giovinezza e del paese da cui sono emigrati. Io ne ho provata una diversa da ragazzino: per me era nostalgia della libertà, a Milano mi sentivo in prigione. Ora non la provo più perché ci sono venuto a vivere.
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In molti, a proposito di Pietro ma anche del suo percorso biografico, hanno parlato di una fuga in montagna. Ed è un tema che ricorre ogni volta che qualcuno prova ad abbracciare uno stile di vita che oggi ai più sembra alternativo. La sua e quella di Pietro sono davvero fughe o piuttosto un ritrovarsi all’interno di una dimensione originaria?
La parola fuga è negativa, dà importanza al luogo che si lascia e non a quello a cui si approda. Parlerei di ricerca della montagna, di viaggio verso la montagna. E di un modo di vivere che alcuni di noi sentono come più giusto, per il semplice fatto che ci fa stare bene. È interessante la questione del ritorno perché io non credo che sarei mai venuto a vivere in montagna se non avessi avuto quella montagna d'infanzia: l'ho imparata da bambino ed è un luogo a cui sento profondamente di appartenere, da nessuna parte al mondo mi sento più a mio agio che su un sentiero. Questo me lo dicono anche gli amici: lo vedono da come cammino, dalla faccia che ho, dall'armonia che il mio corpo esprime quando è qui. Una volta con un amico valsesiano camminavo su un marciapiede di Milano e lui a un certo punto mi disse: è strano, mi sembri goffo, in montagna cammini con tutto un altro equilibrio. E una ragazza su un sentiero mi disse che sembrava che le mie gambe andassero da sole. Questo sentirsi fatti per un luogo, perfino sentirsi belli quando si è lì, è uno dei sentimenti più forti che la montagna mi dà.
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Pietro e Bruno e la loro amicizia nata tra i monti. Ma quanto del carattere della montagna sopravvive in ognuno di loro?
Penso che la montagna sia nel loro rapporto con la solitudine. Cercata, sofferta, odiata, poi cercata di nuovo, come una condizione che entrambi conoscono bene, un'origine a cui tornare. “Buona, ma non del tutto”, dice Pietro. Faccio fatica a capire chi va in montagna sempre con altri, magari in grandi gruppi. Nella montagna in solitudine c'è qualcosa di difficile e prezioso, un dialogo con lei che non si può instaurare se c'è gente intorno.
In un’intervista pubblicata su «La Stampa» lei ha definito la montagna come qualcosa di molto concreto. Cosa c’è in questa concretezza che non ha trovato altrove?
Sono stato un bambino cresciuto davanti alla televisione, come molti di noi. Milano, un appartamento in alto, la città lontana, uno schermo televisivo. Un bosco o un torrente sono esistiti per me, prima di tutto, come immagine, racconto, rappresentazione, mettetela come volete. Scoprire che potevano essere reali è stato fonte di grande meraviglia, ed è ancora adesso la meraviglia il sentimento con cui vado in bosco o risalgo un torrente. Sono terribilmente respinto da tutta quella letteratura postmoderna per cui ciò che conta, ai giorni nostri, è raccontare non la realtà ma la sua rappresentazione, non il bosco ma il bosco dentro il televisore. Me ne sono liberato buttando via quella macchina infernale (da quindici anni ormai) e imparando com'è una corteccia sotto le dita, o l'odore del bosco al tramonto (cambia di colpo, subito dopo il calare del sole, e diventa umido, di muschio, funghi, un odore più freddo e penetrante; deve avere a che fare con quello che succede agli alberi appena sentono che viene notte).
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Mi perdoni la domanda forse un po’ stupida, ma mi piacerebbe confrontarmi con lei su questo punto. Arrivato sulla cima dopo un lungo salire, si affaccia e guarda sotto e intorno a sé. Vorrebbe tentare di descrivere a parole cosa si prova in quel momento?
Dipende se è una scoperta o un ritorno: tra noi che andiamo in montagna c'è chi cerca sempre montagne nuove e chi preferisce quelle che conosce bene. Io non ho girato un granché le Alpi, ma credo di ricordare a memoria ogni sentiero e ogni cima di un paio di valli valdostane. Quando arrivo in vetta è come ritrovare tutto, faccio il giro dell'orizzonte e pronuncio tra me ogni nome, rivedo i rifugi dove ho dormito e dove ho degli amici, cerco gli alpeggi, i valloni, i laghi, ricordo quando ci sono stato e immagino come sarebbe essere lì di nuovo. Un senso di grande familiarità e conforto: eccolo lì, il mondo, sotto lo stiamo distruggendo ma lassù è sempre uguale a quando avevo sette o venticinque anni. Sulle cime nuove, quando mi capita, non provo queste sensazioni, piuttosto un senso di mistero e di scoperta. Mi piace esplorare a lungo le montagne intorno con gli occhi, e qualche volta dagli occhi nasce il desiderio di andarci.
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Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega?
Cerco di tenermi in forma perché è davvero faticoso, nella testa. È tutto un parlare, andare in giro, sentire addosso lo sguardo degli altri, subire le tensioni che un premio così comporta. Ce la faccio perché so che il mio centro è solido ed è un centro ben preciso, il posto a cui appartengo e dove mi sento bene. Ci torno anche solo per un giorno tra una serata a Roma e un'altra a Milano, faccio una corsa fino ai tremila metri, me ne sto un po' lassù, poi mi sento meglio e pronto a tutto, anche alla serata finale. Sapendo che in ogni caso il giorno dopo io sarò di nuovo qui.
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