Premio Strega 2016 – Intervista a Giordano Meacci
Il cinghiale che uccise Liberty Valance (edito da minimum fax) ci introduce immediatamente nel bel mezzo della scena a Corsignano, un paesino di provincia di cui lei scrive: «il Secondo Millennio avrebbe trovato Corsignano preparata alle novità e indifferente esattamente come se la ricordava da sempre». Questo è un limite o un punto di forza della provincia?
Allora. Come prima cosa bisogna intendersi su cosa significhi realmente La Provincia. Capire cioè se identificarla con una dimensione marginale, un luogo in qualche modo diviso e isolato rispetto a un Centro (ipotetico o reale quasi non importa); o se invece con “provincia” riferirsi a una qualche laica, stordita, disincantata e refrattaria “categoria dello Spirito”. Quando ho deciso di raccontare i personaggi che mi àbitano da decenni guardandoli vivere nel paese inventato di Corsignano – che mi àbita e possiede, ossessivamente, anche da prima – ho cercato di regalare a tutti loro la dimensione doppia di un universo concluso (il Paese come me lo ìmmagino, da sempre, fondendo le diverse immagini di pietre e tufo che mi sono precipitate dentro nell’infanzia estiva e contadina umbro-toscana); insieme con l’idea delle infinite possibilità che si hanno nel guardare ai mondi che ci si affacciano intorno partendo da una condizione di incanto frenato, o di accettazione reiterata della scoperta. Perché quando hai ancora tutto (o quasi tutto) da scoprire, puoi solo decidere se lasciarti affascinare dalle vite che ti si disvelano davanti o rinunciarci, con tutto il portato di tristezza e di desolazione che questo comporta.
Ricordo l’incipit struggente e bellissimo della Lepre di Vincenzo Cerami, quando parla di una «storia di gente periferica, abituata da sempre a confondere le leggi dei governanti coi decreti del destino». Ecco: una storia periferica che però assume valore universale nel momento stesso in cui viene raccontata. Alla fine arriviamo sempre al modo e allo sguardo con cui si racconta.
Da questo punto di vista, Roma – la Città dove sono nato e vivo, di là dalle mie fascinazioni paesane romantico-espressionistiche (categoria improvvisata cui però, da qui in poi, tengo disperatamente) – nella sua accoglienza al tempo stesso sorniona e distaccata, complice e indagatoria: può essere raccontata come il capoluogo di Provincia più vasto del pianeta. Laddove Roma identifica la Provincia nel “Resto del mondo” pronto a essere accolto – e quindi romanizzato, nel bene e nel male: e attenzione ai pochissimi fonemi strascicati che accostano il termine al romanzato che ci sta a cuore – sempre, comunque e in qualsiasi momento. A patto di voler scambiare, alla pari, tutte le storie provinciali che arrivano con i racconti che la Città si ritrova addosso da millenni.
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Il personaggio principale è il cinghiale Apperbohr. Ma chi è veramente e perché la decisione di porlo al centro di un romanzo di formazione?
Deformando il mònito di Gertrude Stein a nostro uso possiamo affermare l’unica certezza possibile. “Apperbohr è Apperbohr è Apperbohr è Apperbohr”. La sua natura cinghialesca prima e apperbohriana poi è – per l’appunto – tutta interna al romanzo come-è-scritto e alle singole (o singolari) percezioni di ogni singolo (o singolare) lettore.
Poi. La decisione di renderlo protagonista effettivo del romanzo. Ecco. Questa decisione, in corso d’opera, è stata sua. Di Apperbohr, dico.
In un certo preciso momento della mia – della sua: di Apperbohr, dico – vita, il Cinghiale (tanto nelle sue particolarità goffe, impresentabili, animalesche e ferine; quanto nella sua inspiegabile capacità di comprendere, improvvisamente, le parole e il linguaggio degli esseri umani) è arrivato in una Corsignano già costruita e, con quel modo perentorio che hanno i cinghiali (o i personaggi, certe volte) s’è preso la scena.
Nonostante il ruolo preponderante di Apperbohr, lei ha dichiarato: «Corsignano c'est moi», con i suoi segreti e le sue vicissitudini. Cosa rappresenta questo paese immaginario per lei?
Lo dico sempre. Prima nasce Corsignano. Con le sue mura perimetrali, la Vetreria vecchia, i vicoli; ma anche con gli scorci segreti e gelosi delle cantine e degli angoli in ombra tra le case; il paesaggio che s’intuisce tra gli spìgoli di pietra o che invece esplode, boscoso e verdissimo, improvviso, appena s’inciampi in uno slargo, o in una discesa che da sùbito immette nei campi prima ancora di accorgersene. I personaggi che al tempo stesso s’affastellano e si distinguono, silenziosi e vocianti a seconda del calare del sole o del rianimàrsi della luce, appena dopo l’alba, a guardare i digràdi delle colline nel brillìo tiepido e intimidito del Nardile. Davvero, anche a sforzarmi: ogni volta non riesco a pensare a una descrizione di me (e a un’autobiografia) molto diversa da questa.
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Apperbohr comprende la lingua degli uomini ma non riesce a farsi capire da loro e, al tempo stesso, non può comunicare quanto apprende sugli umani agli altri cinghiali, trovandosi fuori da entrambe le comunità. Possiamo leggere quest’aspetto come un invito a riflettere sulla difficoltà del vivere a ridosso di due comunità e, dunque, come esempio del doloroso percorso dell’integrazione?
Anche, perché no? Le letture che arrivano da un romanzo sono sempre legittime, proprio nel momento in cui arrivano.
C’è solo da dire che forse bisognerebbe rivedere proprio la parola integrazione. Perché – me ne accorgo ancora di più mentre ci penso – è riduttiva. Mi spiego: dovremmo sostituirla con un concetto (certo fumoso e soltanto propositivo, per ora) di accoglienza reciproca. L’integrazione prevede un progressivo accostamento a un modo di vivere diverso dal proprio che si conclude, per l’appunto, con un’integrazione: un’accettazione finale da parte dell’organismo ospite. Ma se sfruttiamo al meglio l’ambiguità della stessa parola ospite (tanto chi ospita quanto chi viene ospitato); se accettiamo di stabilire – il timone è sempre e solo la Carta dei diritti dell’Uomo: che in qualsiasi controversia si mangia e esclude le singole carte che non la prevedano – che, per esempio, non posso essere ospitato (quindi integrarmi)con giustezza in un luogo che (sempre per esempio) preveda la pena di morte. Ecco che le questioni si còmplicano, i riferimenti consueti perdono di significato.
E non è più neppure chiaro se si sta parlando di vita o di romanzi. (Ci fosse poi una distinzione reale: visto che di forme da guidare comunque al meglio, si tratta; sempre per quello che si può).
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Restando sul tema delle due comunità, quella dei cinghiali e quella degli umani, per quali ragioni, secondo lei, i cinghiali ci fanno così paura?
Allora. (La mia parola prenditempo). Più ci penso più mi accorgo che il sentimento che m’ispirano i cinghiali non è quello della paura. Certo: di là dal romanzo, non mi vedo a dialogare con un cinghiale che mi càrichi nel bel mezzo di uno stradello nel bosco. Le infinite possibilità della Letteratura non sempre ci sono d’aiuto. Però, magari: ci aiutano a spiegarci certe fascinazioni.
Per chi viva (o abbia vissuto, o sogni di vivere) nei paesi tra i boschi dell’Italia centrale (e non solo, va da sé: qui si parla per esperienza marginale e periferica) il Cinghiale è una sorta di totem. Come l’Orso o il Lupo. Figure ancestrali, selvatiche, oscure per definizione bambina del mondo, terrificanti per principio anche etimologico. I mostri di quando l’umanità era appena nata e si raccontava storie per allontanare la paura del buio. (Ma c’è una differenza, poi, con quest’umanità che siamo adesso noi e che crediamo cresciuta?).
Alla fine, da sempre, la Letteratura non fa che gridare “Al Cinghiale! Al Cinghiale!” per vedere cosa succede dopo.
In un’intervista, ha dichiarato che i cinghiali sono la metafora di quello che sta succedendo in Italia. Possiamo provare a sviscerare questa metafora?
Dopo una serie lunghissima di puntini di sospensione. Mi viene da dire che certe metafore sono come il jazz nella definizione di Armstrong (il musicista, non l’astronauta). «Se ti chiedi cos’è, non lo saprai mai».
(Anche se, ora che ci rifletto meglio, potrebbe valere anche per la Luna di Neil, non solo per la musica di Louis).
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Strega 2016?
Con l’atteggiamento disponibile di Peter Venkman in Ghostbusters, la tranquillità emotiva di Sean Thornton quando torna in Irlanda; e l’atteggiamento divertito e guascone di un Giordano Meacci sedicenne in gita a Venezia con la scuola.
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