Premio Strega 2015 – Intervista a Fabio Genovesi
Non se l’aspettava di entrare a far parte del gruppo dei cinque finalisti del Premio Strega lo scrittore toscano Fabio Genovesi con il suo ultimo romanzo Chi manda le onde (Mondadori). Già oltremodo contento per la vittoria del Premio Strega Giovani, ora, a pochi giorni dal fatidico evento, si dichiara assolutamente soddisfatto.
Come ha preso la vittoria del Premio Strega Giovani?
Non me l’aspettavo, ma mi ha fatto estremamente piacere perché i miei libri sono stati apprezzati dai ragazzi, pur non essendo pensati direttamente per loro. Amo stare con i diciottenni, probabilmente con la mente sono ancora a quel periodo. Quando parlo con loro mi sento “a casa”. Confesso che segretamente ci speravo, ma non l’aspettavo davvero e la cosa mi ha riempito di gioia perché è un premio senza filtri, i ragazzi votano il libro che li ha emozionati di più. Non ho mai amato la distanza, anche in letteratura, e mi piace il contatto diretto con le persone che poi sono la fonte delle storie.
Il titolo del suo romanzo potrebbe essere anche una bella domanda, forse un po’ enigmatica: alla fine Chi manda le onde?
Onestamente non lo so, io ho scritto questo romanzo in quattro anni e sono contento di non saperlo ancora. Secondo me, più che le risposte, sono importanti le domande. Le risposte, in fondo, sono un tentativo di avere ragione sugli altri e di dare conferma a quello che noi pensiamo e crediamo. Più che cercare la verità, cerchi sempre di avere ragione sugli altri. La cosa veramente importante sono, invece, le domande. Viviamo in un mondo in cui, solo se alzi per un attimo la testa dallo schermo del cellulare, accadono delle cose meravigliose, sia nel senso positivo che negativo e davanti allo svolgersi degli eventi non puoi non farti un milione di domande. Da bambino ti fai tantissime domande e le fai agli adulti, i quali spesso non sanno rispondere perché le risposte non ce le hanno neanche loro. Da adulti dimentichiamo di farci delle domande. Io, invece, continuo imperterrito su questa strada. Alla domanda “Chi manda le onde?” non c’è una risposta in effetti, ma è importante continuare a porsi la domanda. Sempre.
Il romanzo incastra storie e protagonisti, con diverse generazioni a confronto: c’è qualcuna, secondo lei, che vive questo periodo storico rispetto agli altri?
Io sono un appassionato degli anziani. Se il Signore mi concederà di arrivare a quell’età, credo che sarà la mia età e sarò felice di essere anziano. Certo, apprezzo la fisicità della mia gioventù, ma stare a sentire gli anziani parlare e raccontare le loro storie per me è il massimo. Inseriscono divagazioni, nuovi particolari, raccontano senza fretta e con tante finestre aperte. Questo periodo storico, con la crisi economica che dilaga, è, però, fantastico per chi scrive perché offre innumerevoli spunti per raccontare questo periodo con le sue stranezze e le mille invenzioni di chi deve provare a sbarcare il lunario: in qualche modo è straordinario. Gli anziani hanno la pensione e forse godono di qualche privilegio che i giovani oggi considerano solo un miraggio. Gli anziani che sono economicamente più ricchi e i giovani, considerati i nuovi poveri, talvolta costretti a vivere alle loro spalle, mi affascinano molto. Il rapporto tra generazioni è oggi interessantissimo. Siamo tutti più vicini, a causa del disagio economico e non c’è più quella separazione netta di un tempo. I quarantenni di qualche decennio fa avevano già la vita prestabilita, un lavoro, una casa, e forse una casa al mare. Ma le età oggi sono molto “miste”: alcuni giovani, anche per mancanza di soldi, fanno vite ritirate, non vanno in vacanza oppure rinunciano o tardano a mettere al mondo dei figli perché non hanno la stabilità economica che forse il modello precedente gli ispira come necessario e fondamentale. Altri anziani, invece, fanno i “giovani”, si divertono, vanno in vacanza.
Indagando queste dinamiche tra generazioni anche per il suo romanzo, ha avuto l’impressione che ci siamo persi qualcosa per strada?
Il benessere economico certamente, ma, in fondo, secondo me, non è nemmeno un grande male. Non parlo di quando manca il necessario per vivere – e mi dispiace molto riscontrare soprattutto condizioni di lavoro risibili che minano la dignità di una persona – ma spesso la nostra società si arrovella per la mancanza di elementi del tutto superflui. Per fortuna, l’uomo, anche nelle difficoltà, mantiene la sua creatività, la voglia di riscatto e la speranza.
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Per scrivere Chi manda le onde sono stati necessari quattro anni. Come lavora di solito?
Lavoro molto la mattina. Mi sveglio presto e lavoro fino a dopo pranzo. Nel pomeriggio, se posso, faccio un giro al mare, anche d’inverno, e la sera torno a casa per un lavoro di pulitura, sistemazione e appunti per il giorno dopo. La vera scrittura avviene di mattina. Sono abbastanza metodico, anche se in periodi come questo, in cui sono sempre in giro per presentare il libro, non riesco a scrivere veramente. Allora, accumulo appunti.
Usa degli schemi?
No, assolutamente, non lo concepisco proprio. Né griglie, né basi. La vita fluisce da sé e deve essere così anche nel romanzo. Bisogna sapere al massimo le cinque o sei pagine successive e basta, lasciare che i personaggi ti guidino. Certo, ci ho messo quattro anni, ma è il mio metodo. La prima stesura avviene su carta, direttamente a penna. Il motivo è che ci vuole più tempo e ciò ti fa stancare prima, ti permette di renderti conto subito se stai esagerando. Il tuo pensiero va alla mano. Col computer c’è sempre la tentazione di copiare e incollare, o di andare su Facebook, o l’antivirus da aggiornare. Non è un vezzo o una menata da scrittore snob. Uso una normalissima Bic e blocchi anonimi che trovo in giro, non ho intenzione di sentirmi strano o bohemien. Pensa che il primo capitolo di Chi manda le onde l’ho scritto su un blocco di una macelleria del mio paese.
Secondo lei, che periodo sta vivendo la narrativa italiana?
In questi ultimi anni stanno uscendo dei romanzi davvero bellissimi. Molti passano sotto traccia perché si legge poco, ma verranno fuori fra un po’, ne sono convinto. Quando ci sono meno soldi si scrivono cose più belle, come è accaduto nel secondo dopoguerra. Se penso solo agli scrittori toscani di questo periodo, da Nesi a Veronesi, da Gipi a Lenzi, non posso che trovare cose davvero belle. A stimolare il mio interesse è tutto ciò che si tiene lontano dall’autocompiacimento. Tante volte mi trovo a leggere un romanzo e a pensare che lo scrittore voglia dire “Guarda come sono bravo a scrivere”, perché è bravo, si compiace della sua scrittura. Ma non c’è anima. Sono le storie e i personaggi che devono emozionare. Se mi dicono “Luna mi è piaciuta un sacco o Zot mi fa impazzire” è ok, non mi va quando mi dicono “Quanto sei bravo”. In questo, capisco anche la Ferrante che non intende apparire per rimettere al centro dell’interesse le storie. È fondamentale che si parli delle storie.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Strega 2015?
Non ho un vestito buono da indossare. Già quando sono andato in Parlamento, mi sono dovuto far prestare la giacca. Io e Zerocalcare eravamo in grande crisi, sotto questo aspetto! Considero il Premio Strega come un viaggio, in cui contano di più le cose che succedono durante il percorso. Anche in questo caso sarà così. Vada come vada, sono già contento così. Vincere il Premio Strega Giovani è stata per me una grandissima soddisfazione. Non ho mai partecipato a nessun premio, non scrivo per i premi, ma per chi legge e vivo questa serata con questo sentimento molto semplice e tranquillo, per passare una bella serata con amici. La vita è così generosa che ti dà quello di cui hai bisogno al momento giusto.
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