Premio Strega 2014 – Intervista ad Antonio Scurati
Il padre infedele, edito da Bompiani, pone al centro della narrazione un trittico familiare: il padre, la madre e la figlia. Ancora oggi, la famiglia può rappresentare il nucleo tematico per narrazioni della contemporaneità?
Mai come oggi, direi. Proprio perché viviamo un passaggio storico nel quale la famiglia tradizionale si va definitivamente dissolvendo e si rende necessario sperimentare, su di un piano dove non c’è che l’uomo, nuove forme, inaudite, di famiglia, la letteratura è chiamata a partecipare a questo esperimento umano. Il mio romanzo esplora, però, in particolare la nuova condizione di paternità come nuova condizione umana. Gestazione, parto, nutrizione, vestizione, dormizione dei figli sono, credo per la prima volta, narrati da un punto di vista integralmente ed esclusivamente maschile che non finge l’immedesimazione in un personaggio femminile come faceva in passato lo scrittore maschio quando voleva affrontare questi temi. Non esiste tradizione letteraria per questo tipo di racconto perché non esiste storia sociale. Anche nel passato recente la società confinava queste esperienze alla condizione femminile e dunque le narrava da un punto di vista femminile.
Mi permetta un gioco un po' azzardato: nella mitologia classica, Glauco è figlio di Poseidone, dio del mare e dei terremoti, detentore quindi di un senso di libertà molto forte e di un potere che può sconvolgere l'ordine costituito, e di una delle Naiadi, protettrici delle acque dolci e con facoltà guaritrici e profetiche. Si può ricorrere al principio del "nomen omen" nel caso di Glauco, protagonista de Il padre infedele?
Il suo è un azzardo molto raffinato sul quale rifletterò. Il principio dello “omen nomen” vale anche nel mio caso ma il mio Glauco è l’eroe omerico che assalta il muro degli achei e al quale Sarpedonte rivolge le parole più memorabili e remote di tutta l’Iliade (per l’orecchio contemporaneo, s’intende). È il mio eroe omerico preferito e con questa scelta volevo sottolineare il paradosso per cui il divenire padre, ciò che fino alla generazione dei nostri padri era considerato il passaggio più naturale verso la condizione adulta, è oggi divenuto per noi, padri rari, tardivi, quasi un atto eroico. Ridicolo no?
Uno dei principi che anima il Johannes de Il diario di un seduttore di Kierkegaard è «bisogna sempre studiare, prepararsi, tutto dev’essere predisposto», una continua attenzione verso se stessi per essere pronti al controllo sulle situazioni. In alcuni passaggi delle riflessioni/analisi di Glauco Revelli mi sembra potrebbe emergere una propensione in questa direzione. Ha scelto la forma diaristica perché maggiormente in grado di proporre al lettore questa focalizzazione su di sé?
Lei cita un libro a me molto caro. Il padre infedele potrebbe essere in effetti definito “il diario di un padre seduttore”, un maschio adulto che vive nella maniera più radicale la scissione tra condizione paterna e maschile, tra uomo virile responsabile e maschio animale inseminatore. In un primo momento avevo pensato di intitolarlo Confessioni di un padre infedele. Ma al centro del libro non c’è la focalizzazione su di sé. C’è, all’opposto, la narrazione dell’unico “evento” che nelle nostre vite egotistiche si dimostra in grado di proiettarci fuori di noi stessi, di strapparci al culto decadente del sé: la nascita di un figlio, se quella nascita fa nascere in noi il padre (non è sufficiente, ovviamente, la paternità biologica per questo).
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La vita di Revelli oscilla come un pendolo tra la dimensione del piacere, rappresentata dal suo cedere (nel mondo onirico?) alle pulsioni erotiche, e quella della responsabilità, rappresentata dalla paternità e dal rapporto con la figlia. Si può ravvisare un riferimento a Schopenhauer?
La linea Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, con i loro eredi novecenteschi, è stata centrale nella mia formazione filosofica. Ma noi viviamo un dissidio tragico tra eros e pietas paterna ancora più radicale di quello annunciato da quei grandi pensatori ottocenteschi perché il Novecento ha spostato l’intera posta della sua residua metafisica dall’eros al sesso. Dalla cosiddetta “rivoluzione sessuale” in poi abbiamo coltivato attese spropositate, quasi palingenetiche, nei confronti del sesso quale possibile fonte di rivelazione di un senso della vita. Oggi viviamo nella grande delusione suscitata da quella grande illusione. Il mio romanzo si sforza di narrare anche questo.
Prima accennavo al tema del senso della responsabilità che nel romanzo è soprattutto di natura pedagogica, legata al rapporto padre-figlia. Ritiene che sia un valore da recuperare o una dimensione critica dell'esistenza umana con cui necessariamente bisogna fare i conti?
Buona parte della mia intera produzione letteraria ruota attorno al tema della pedagogia. È forse il più grande rimosso della attuale cultura occidentale. Siamo forse la prima generazione dopo secoli e millenni che sembra aver rinunciato all’educazione dei fanciulli (e delle fanciulle) quale scopo primario della società da affrontarsi collettivamente, attraverso una grande impresa culturale condivisa. Rimangono, nella famiglia come nella scuola, singoli individui che si battono solitariamente su questo fronte perduto.
Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega 2014?
Ho portato in tintoria una vecchia camicia bianca che da anni prendeva polvere nel cassetto.
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