Premio Strega 2014 – Intervista a Francesco Piccolo
La genesi di Il desiderio di essere come tutti (edito da Einaudi) è partita dall’esigenza di raccontare la sua storia o è stata sollecitata dall’approssimarsi del trentesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer, per il quale sentiva di dover dare una testimonianza?
Il discorso dell’anniversario è stato quasi del tutto casuale, anche perché ho iniziato a scrivere materialmente questo libro cinque anni fa, raccogliendo dati e appunti che ho scritto nel corso degli anni. Questo è un libro che ho dentro da un po’. Ero totalmente inconsapevole della coincidenza dell’anniversario e solo quando è uscito a ottobre ho realizzato che si sarebbe avvicinato questo appuntamento così importante. Solo gli articoli si possono scrivere in concomitanza degli anniversari, ben più difficile per un romanzo sul quale si lavora per anni. Posso dire che una delle grandi spinte a questo romanzo è stata l’idea di voler raccontare Berlinguer, l’importanza di Berlinguer nella mia vita e l’importanza del suo funerale nella mia vita e così come la mia mancata presenza. Dal punto di vista oggettivo, può sembrare qualcosa di assolutamente trascurabile, ma dal punto di vista soggettivo è qualcosa di epocale. Ognuno di noi deve fare i conti con alcune scelte nella vita che sembrano piccole e casuali, ma che poi ti condizionano per sempre perché sono simboli di passaggio nella formazione di una persona.
Il suo romanzo è un continuo andirivieni tra la dimensione soggettiva e quella collettiva sociale, in un’epoca in cui quest’ultima aveva ancora un ruolo molto importante. Secondo lei, oggi prevale la ricerca di un mero spirito di emulazione o una soggettività sempre più spinta?
Ogni periodo storico ha i suoi miti e i suoi modelli, la sua mitologia e il suo modo di stare al mondo. In fondo il libro punta a eliminare quell’idea per cui in passato fosse tutto migliore. Quello che abbiamo oggi sembra poco, ma in verità anche allora quello che avevamo ci sembrava poco. È sempre a posteriori che le cose si comprendono meglio. Sono convinto che uno scrittore che voglia occuparsi della società di oggi ha a disposizione tutto il materiale possibile, tanto quanto poteva averne un suo collega venti o trenta anni fa.
Quale consapevolezza ha maturato all’età di dieci anni mentre vedeva la partita di calcio dei mondiali Germania Ovest contro Germania Est? Anche quello è un passaggio importante per la sua storia personale, così come viene raccontato nel libro…
La voglia di ribellarsi allo schema che ci era imposto. Il modello prevedeva che le persone che erano dalla parte nostra erano quelle giuste, quelle ci assomigliavano. Questo ragazzino, mentre assiste a una partita di calcio, nutre un’innata simpatia per le persone diverse, lontane, povere, deboli, fragili. In fondo, se ci pensiamo, è l’idea semplificatoria fondante alla base del comunismo, cui successivamente ho realizzato di aderire sin da quel momento. Ma quell’episodio ha rappresentato la prima significativa testimonianza in quella direzione.
Il desiderio di essere come tutti è una testimonianza preziosa per chi non ha vissuto gli anni Settanta-Ottanta e così può ricostruire un pezzo della storia d’Italia degli ultimi decenni. Che riscontro ha percepito andando in giro per l’Italia durante le presentazioni, soprattutto nei più giovani?
È stato bello vedere i ragazzi che hanno scoperto alcuni momenti della storia recente dell’Italia attraverso una storia soggettiva. La cosa che ho percepito più spesso, con piacere naturalmente, è scoprire che i giovani, dopo aver letto il libro, hanno avviato un confronto con i genitori, un dialogo sui fatti e sugli eventi dell’epoca.
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Dunque, una sorta di coronamento e di naturale prosecuzione del concetto di etica della responsabilità che ricorre spesso nel romanzo…
In fondo, sì certo, si riallaccia a quel tema, ma anche al desiderio profondo di voler avere a che fare proprio con tutti, anche con quelle persone che non conosci o che non riconosci come quelle che hanno vissuto la tua generazione.
Una delle caratteristiche del suo romanzo è una leggerezza, non fine a se stessa, piuttosto una levità. Come è riuscito a mantenerla nello stile e nella narrazione, pur parlando della sua storia personale?
A prescindere da quello che sarà il risultato tra qualche giorno, questo libro ha come punto di partenza un tesoro che è la vita. E non capita spesso nella vita di uno scrittore di poter scrivere un libro di questo genere. Io non ho studiato ex novo una materia che non conoscevo per trasferirla nel romanzo. Ho attinto a qualcosa che conoscevo bene e che, certo, ho dovuto rielaborare, approfondire, mettere a confronto, ma la base di partenza c’era ed era ottimale. Per questo lo amo molto e mi piacerebbe ancora scrivere questo libro, in altri modi e con altri temi.
Una levità che il lettore percepisce per via di un’identificazione?
Sì certo, ma non solo con la mia vita, anche con la politica.
Che cosa c’è di attuale ancora oggi nel messaggio di Berlinguer?
Quello che ho scritto nel libro e quello che penso è che si continua a dare risalto ai suoi pensieri, ad alcune profezie importantissime, come la questione morale, mentre si mette da parte il riformismo e il compromesso storico che forse stiamo vivendo proprio in questa fase nel nostro Paese. Si tratta dell’ultima strategia politica importante in Italia, dopo non ce ne sono state più, che ha portato ad un’idea di riformismo che fino ad allora il partito comunista non aveva e che invece Berlinguer provava a perseguire con tutte le forze per andare al governo e provare a cambiare il Paese.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Strega 2014?
Sapevo che la casa editrice aveva intenzione di candidare il mio libro, e quando mi è stato confermato, sono stato contento. Per fortuna non è una partita di calcio che dobbiamo giocare. Abbiamo già giocato la nostra partita tutti e cinque quando abbiamo scritto il libro. Ora tocca agli altri giudicarli, vagliarli. Per quanto riguarda me, non mi preparo in maniera particolare.
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