Premio Galileo 2015 – Intervista al prof. Claudio Bartocci
In qualità di professore associato di Fisica matematica e Storia della matematica presso l’Università di Genova dal 1999, ha avuto modo di confrontarsi con molti studenti. Com’è cambiato l’approccio allo studio, in generale, e all’università, in particolare?
Insegno dal 1990 ed è da 25 anni che osservo gli studenti. Ci sono stati certamente dei cambiamenti e sono i cambiamenti che hanno interessato la scuola negli ultimi decenni, soprattutto le scuole medie superiori, e in particolare il liceo classico e il liceo scientifico che rappresentano i “bacini” d’elezione per un corso di laurea come quello nel quale insegno. Ho notato che c’è meno curiosità, non perché gli studenti di oggi siano meno “dotati” di quelli di un tempo, ma perché, in un certo senso, sono abituati dalla scuola a non prendere nessuna iniziativa. Si aspettano una materia e una didattica preconfezionate. La curiosità è fondamentale perché ci spinge nella direzione della ricerca del sapere e dell’approfondimento e va a braccetto con l’immaginazione, anch’essa abbastanza carente ultimamente: di fronte a un teorema matematico, la soluzione arriva anche grazie alla nostra immaginazione che prova nuove strade per raggiungerla, appunto. Per avere curiosità e immaginazione, bisogna essere addestrati, proprio come avviene nello sport, a superare l’ostacolo.
Quali azioni, quali buone prassi potrebbero essere praticate per rendere questo processo reversibile?
Di sicuro cambiare metodo di insegnamento nella scuola che, in questo momento, non assolve del tutto alla sua funzione di formazione degli individui. A partire dalle elementari, e così poi passando alle scuole medie inferiori e a quelle superiori, si dà priorità alle procedure, alle regole, almeno per quanto concerne lo studio della matematica, meno a stimolare la curiosità e l’immaginazione per trovare in sé le risorse e le capacità per risolvere i problemi. Talvolta, penso sia anche un questione di mancanza di fiducia. Penso che sia sbagliato privilegiare metodi squisitamente operativi come incolonnare o piuttosto usare la matita rossa per i decimali e la verde per gli interi. Capisco la motivazione, però l’effetto finale è quello di appiattire la didattica e la classe. A onor del vero, ritengo che gli insegnanti non siano i responsabili di questa situazione, magari gli attori. Credo che le responsabilità siano condivise tra l’università da un lato e gli organi ministeriali dall’altro: l’università è responsabile perché forma gli insegnanti e dà il cattivo esempio perché parcellizza il sapere. Questa visione, questa compartimentazione del patrimonio del sapere è solo italiana e ciò distorce l’approccio. Non si dice, in genere, ma è così. I professori universitari accettano una situazione che, nei fatti, è inaccettabile. Il modello dell’università italiana così com’è non funziona. Diceva Popper: «Bisogna essere studiosi di problemi, non di discipline». D’altro canto, noto che è molto difficile – se non impossibile – interloquire con i responsabili ministeriali che decidono i programmi scolastici o i meccanismi di valutazione; vorrei confrontarmi con loro, non a suon di regolamenti, ma di idee. Vorrei che i programmi fossero firmati dal ministro, ma anche dai loro estensori materiali, cosa che ad oggi è impossibile perché questi documenti sono anonimi.
Che cosa ne pensa delle ultime pellicole sul grande schermo che hanno per protagonisti dei matematici e degli scienziati, in particolare con The Imitation Game su Alan Turing e La teoria del tutto sullo scienziato Stephen Hawking?
Il film su Turing ha lo svantaggio di raccontare una storia che tutto sommato è tormentata e sfortunata. Certo, capisco le esigenze drammaturgiche e cinematografiche, ma in fondo nessuno vorrebbe essere Turing, l’immagine del matematico che ne viene fuori è molto lontana dalla realtà. Quando prima parlavo di fantasia, curiosità, immaginazione, non mi riferivo ai livelli di Alan Turing. Non è necessario essere come Turing, anche perché quel livello di genialità e di originalità non ce l’ha nessuno. Tra un matematico qualsiasi e Turing c’è un abisso incolmabile. Se volessimo mantenere la metafora dello sport cui mi sono riferito prima, sarebbe come paragonare chi fa un po’ di sport per mantenersi in forma e chi vince le Olimpiadi. Penso che una vera sfida intellettuale del nostro tempo sia quella di presentare la matematica in un modo nuovo da quello usato finora, diverso e se vogliamo anche un pochino accattivante. Questi film possono offrire il vantaggio di attrarre gli spettatori e di stimolare qualche curiosità.
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Dimostrare l'impossibile: la scienza inventa il mondo (Raffaello Cortina editore) è il titolo del suo saggio finalista al Premio Galileo 2015. Cosa vuol dire per uno scienziato inventare il mondo?
La scienza è una modalità di esplorazione del mondo che ci circonda e della realtà: il modo in cui noi percepiamo quest’ultima dipende in larga misura dagli strumenti concettuali e dalle teorie che ci servono per indagarla. Il mondo che oggi è intorno a noi è chiaramente diverso da quello di un cittadino europeo di 100 anni fa perché i fenomeni si spiegano in maniera diversa e perché tutti, anche senza avere una preparazione scientifica approfondita, usiamo strumenti che provengono da teorie fisiche avanzate: tutte le volte che adoperiamo apparecchiature elettroniche ricorriamo alla meccanica quantistica; tutte le volte che usiamo il GPS facciamo ricorso alle correzioni relativistiche. Magari non ne siamo consapevoli, ma questo insieme disegna un mondo che è inevitabilmente diverso da quello dei nostri nonni. Mi tengo ben lontano da costruzioni sociologiche della scienza, ci tengo a precisare.
La divulgazione ha, dunque, prodotto esiti positivi?
C’è sicuramente una necessità educativa di far circolare le idee scientifiche a tutti i livelli, non solo in quello scolastico, ma anche in quello dei media e dell’informazione, della politica e della pubblica amministrazione. La scienza è cultura, ci dà una certa immagine del mondo e deve essere condivisa dal maggior numero possibile di persone. Ciò comporta una serie di azioni, innanzitutto nel mondo della scuola, forse osando con un po’ più di coraggio, evocando, perché no, anche qualche suggestione. La comunicazione sui media, d’altro canto, dovrebbe essere meno condizionata dal desiderio di stupire: spesso quando si trova a raccontare i risultati di un nuovo esperimento, c’è sempre la tentazione di sottolineare l’evento in modo “meraviglioso”, “strabiliante”, “stravagante”. Pensiamo, ad esempio, alla “particella di Dio” con cui è stata ribattezzato il Bosone di Higgs. In tutta franchezza, trovo questa modalità comunicativa abbastanza kitsch. Propendo, invece, per una maggiore sobrietà e neutralità che mi deriva dalla formazione anglosassone. Io stesso, nella stesura del libro, ho fatto uno sforzo – pur consapevole di avere utilizzato questi aggettivi, perché talvolta è inevitabile – per limare questi aspetti.
Nel suo saggio, individua un momento di crisi della cultura scientifica italiana nel 1912, in occasione della polemica tra Federigo Enriques, che al IV congresso internazionale di filosofia aveva invitato anche il chimico Arrhenius, e Benedetto Croce, che criticò con asprezza questa scelta. Quanto ritiene che questa polemica abbia influito sullo sviluppo scientifico e sul percorso di credibilità sociale della scienza?
C’è stato un tentativo serio da parte di Enriques di coniugare la scienza e la filosofia in un discorso comune, così come è avvenuto in tanti altri Paesi. Purtroppo l’azione di Enriques è naufragata. L’obiettivo non era di certo quello di stabilire un dominio della cultura scientifica su quella umanistica, ma di avere un’idea più ampia di cultura, nella quale entrambi gli aspetti convivano tranquillamente. Spesso la dicotomia tra i due “mondi” viene ampliata ad arte, ma non è affatto così.
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