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Premio Campiello Giovani 2015 – Intervista a Eva Mascolino

Premio Campiello Giovani 2015 – Intervista a Eva MascolinoEva Luna Grazia all’anagrafe, al secolo Eva Mascolino, è tra i finalisti dell’edizione 2015 del Premio Campiello Giovani con il racconto Je suis Charlie. Un nome evocativo e niente affatto casuale, debitore all’Evaluna di Isabel Allende (nomen omen?). Non occasionale è anche la trama del suo racconto: all’indomani dell’attacco terroristico ai danni della redazione del giornale satirico «Charlie Hebdo» a Parigi (durante il quale sono morte dodici persone, incluso il fondatore, Stéphane Charbonnier, e altre undici sono rimaste ferite), molti hanno usato l’affermazione «Je suis Charlie» come attestazione di solidarietà non solo nei confronti delle vittime ma soprattutto verso la libertà di stampa, opinione ed espressione, bersagli morali dell’attentato.

Jean-Ive Le Léap, invece, è una vittima collaterale. Il protagonista scelto dalla giovane catanese per la sua storia è uno dei vignettisti di Charlie Hebdo, assente al momento dell’irruzione dei miliziani dell’ISIS per via di una forma acuta di crisi di identità che lo ha portato a trasferirsi temporaneamente a Lentini insieme al suo gatto Lechat. Alla ricerca di una nuova dimensione di vita, rientra nella capitale francese giusto in tempo per comprendere che la sua precaria crisi interiore l’ha salvato dal novero dei caduti, pur essendo lui uno dei principali responsabili delle vignette al centro della furia repressiva degli estremisti. Il senso di colpa è una pena da scontare con il suicidio, un atto volontario che, tuttavia, diviene il centro di un’esasperata arena mediatica che raggiungerà l’apice con uno speciale televisivo a cui il pubblico potrà partecipare esprimendosi, però, solo su insindacabile giudizio della redazione di France 2 «come da buon manuale della libertà di pensiero e di parola contrario al fanatismo».

Eva, «un maldestro ossimoro con i capelli ricci, perennemente innamorata di tutto ciò che è Buono e Bello», studia lingue all’Università, è caporedattrice per una testata giornalistica free press, scrive racconti che vorrebbe pubblicare e poesie che preferisce proteggere dalla folla. Approfondiamo ora la sua conoscenza.

 

Non riesco a esimermi dall’iniziare con una domanda un po’ provocatoria, Eva, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente subito dopo aver letto il titolo del tuo racconto, Je suis Charlie. In che misura, se misura c’è stata, l’ispirazione si è lasciata influenzare dall’idea che l’attentato alla redazione del giornale satirico «Charlie Hebdo» potesse rappresentare quel collegamento con la cronaca e l’attualità, quella prospettiva sociale più “elevata” per impressionare la giuria del Campiello Giovani?

Non la trovo una domanda provocatoria, anzi, è una curiosità legittima.

È il terzo anno di seguito che partecipo al Campiello Giovani e negli altri due casi – come credo di aver fatto anche in questo – mi sono lasciata trasportare solo da sensazioni, esperienze e opinioni legate al periodo durante cui ho scritto i racconti. Il primo anno, per esempio, il protagonista era un erotomane, guarda caso subito dopo la stabilizzazione della relazione di coppia per me tuttora più importante della vita, che per anni avevo considerato destinata a esistere solo nella mia mente: quando ho percepito di aver superato quello stadio, ne ho suggellato il mio allontanamento con carta e penna. Il secondo anno, mi sono dedicata a una torbida storia familiare, di genitori incapaci di fare il bene dei figli pur volendolo, perché il tipo di letture a cui mi ero dedicata per molti mesi – da Luigi Pirandello ad Amélie Nothomb, da Carlos Ruiz Zafón a Haruki Murakami – mi aveva messa di fronte a continui relativismi, a errori irreparabili, a tentativi di rapportarsi agli altri in maniera talvolta meravigliosa e talvolta disastrosa.

Quest’anno, avevo essenzialmente scritto dell’impossibilità di convivere in maniera equilibrata con la bellezza. La “cornice” di «Charlie Hebdo» è arrivata dopo e si è intrecciata alla storia originaria di Jean-Ive Le Léap solo per una serie di eventi casuali. La mia idea, infatti, era di dedicarmi alla visione di Parigi come metropoli che ammalia e che fa smarrire il senso di sé, proprio come avrebbe fatto una sirena nell’antica mitologia greca. Per mesi, però, ho scritto stralci di questo racconto senza riuscire a dargli un senso compiuto, un titolo, un finale (e, quindi, uno scopo) ben precisi.

Poi, nel momento in cui è avvenuto l’attentato a «Charlie Hebdo», ho collegato l’episodio alla mia idea in maniera istintiva. I giorni successivi all’avvenimento sono stati di grande indignazione e dibattito, sia in ambito universitario che “casalingo”. Da un lato ero molto toccata dall’accaduto, anche per via dei legami con il giornalismo che vivo sulla mia pelle, dall’altro ho trovato l’attenzione dei mass-media e dell’opinione pubblica decisamente esagerata e parziale, se consideriamo che contemporaneamente (e non solo) stavano avvenendo massacri ben peggiori in altre parti del mondo, meno nel mirino solo perché sfortunatamente non appartenenti alla “civilissima Europa” o alle grandi potenze economiche mondiali. Questo genere di “scala di valori” mi disgusta, la trovo un dis-valore dis-umano. Così, con le viscere, ho febbrilmente ampliato e completato Je suis Charlie nell’arco di un weekend. Dare un significato di alto spessore sociale e collettivo alla storia di un singolo personaggio voleva dire far riflettere sui fatti e turbare eventuali lettori tanto quanto lo ero stata io, a mia volta singolo individuo di una comunità più grande.

Il lunedì successivo, ho controllato la scadenza del bando del Campiello Giovani, scoprendo che mi restavano ancora tre giorni per rivedere il racconto a mente lucida, stamparlo e spedirlo, se lo avessi desiderato. È stata, perciò, una vera corsa contro il tempo, durante la quale non ho avuto materialmente l’occasione di ragionare sull’impressione intenzionale che avrei voluto fare alla giuria. Ho preso in considerazione solo l’effetto che l’esecuzione ai giornalisti del settimanale aveva sortito su di me e doveva aver sortito anche sugli altri, sebbene ciascuno fosse pervenuto a conclusioni e pareri diversi in proposito. Mi dicevo: «Sto avendo per il rotto della cuffia una chance per esprimere la mia opinione su un evento al momento per tutti imprescindibile in un contesto letterario di grande rilevanza. Sono stata fortuna a farcela», ma nient’altro.

Sapere che è stata una mia reale convinzione di denuncia e un serio caso di contrasti fra menti e popoli ad aver impressionato la giuria non può che farmi sentire onorata.

 

Il tuo racconto ha un intreccio, a mio parere, molto cinematografico, all’incrocio tra il cinema della perdita dell’identità (c’è qualcosa di truffautiano nella caratterizzazione del protagonista, Jean-Ive Le Léap) e quello post moderno, da un lato una certa dimensione intimistica, di perdita e ricerca del sé e dall’altro il ciclone mediatico che trasforma la persona in personaggio, il gesto e la responsabilità individuale in immagine collettiva soggetta a giudizi e pregiudizi per lo più spericolati. Prima di entrare nel dettaglio di quest’ultimo aspetto, volevo chiederti se sei d’accordo con chi sostiene che scrittura contemporanea sia fin troppo influenzata dalla sintassi dei mezzi di comunicazione di massa, nel senso di una contaminazione in negativo che sta depauperando la letteratura, sempre più media e sempre meno arte.

Devo ammettere di non avere ancora avuto il piacere di conoscere Truffaut approfonditamente, anche se dopo questa comparazione me ne è venuta molta voglia! In effetti, sì, Je suis Charlie sta proprio a metà fra la rappresentazione narrativa tradizionale e cinematografica, e quella post-moderna.

Tuttavia, è il primo tentativo di questo tipo in cui mi cimento – e lo dico per rispondere in maniera completa alla domanda. Da parte mia, infatti, mi trovo d’accordo con chi sostiene che in linea generale la letteratura contemporanea sia spesso influenzata dalla sintassi dei mass-media. Quando è nato, il giornalismo “assorbiva” il più possibile lessico e canoni della letteratura, già esistente da tempo immemorabile e con una struttura solida e apprezzata dal proprio pubblico; ora che la letteratura appare a molti “passata di moda” (assurdo il solo pensiero, ma tant’è), ecco che accade il contrario. Lo trovo poco sensato, in linea di principio. Per me la letteratura è extra-ordinaria proprio perché chi la pratica può giocare con qualunque uso linguistico capace di rappresentare la sua personalità, nei limiti di correttezza e comprensibilità della forma: lasciare che i mass-media la influenzino significa limitarne le potenzialità, cercando quasi con la forza di catturare l’attenzione di quei lettori abituati a leggere più testate giornalistiche che poesie del Novecento tedesco o romanzi dell’Ottocento russo.

C’è, quindi, effettivamente chi strumentalizza le tecniche mediatiche – che nel loro ambito sono giustificate e hanno un senso – a fini spesso non tanto letterari, quanto legati a strategie di marketing editoriale e agli incassi che derivano da un eventuale successo. Non penso si possa parlare, in casi simili, di Arte. Anche parlare di Giornalismo sarebbe offensivo nei confronti del giornalismo autentico: di inchiesta, impegnato e convinto delle proprie posizioni.

Così, nell’occuparmi di Je suis Charlie, ho volutamente usato un linguaggio contaminato al massimo, servendomi di una vicenda scritta addirittura in forma di saggio breve/lungo articolo, affinché la provocazione al 100% fosse contro le pubblicazioni ispirate da puri fini di guadagno, anche e soprattutto dal punto di vista stilistico. Se si esclude questa eccezione, che aveva una finalità ben precisa e critica, mi traggo fuori dalla mischia e preferisco scrivere a modo mio quando mi occupo di narrativa e in modo più freddo e regolamentato quando mi occupo di informazione.

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Premio Campiello Giovani 2015 – Intervista a Eva MascolinoE dunque la domanda obbligatoria: qual è il tuo rapporto con i nuovi mezzi di comunicazione? Credi che siano più un mezzo o un fine per la libertà d’espressione? E, soprattutto, cosa significa libertà d’espressione, inclusa la satira, per una ragazza di appena vent’anni?

Giusto per chiarire: io non credo che la sintassi dei mezzi di comunicazione di massa abbia in sé poteri contaminatori in negativo. Ogni testo ha un proprio linguaggio specifico, con delle funzioni linguistiche sue proprie, funzionali a raggiungere uno scopo al momento della fruizione del testo stesso. È giusto che i mass-media utilizzino un determinato registro, che io trovo adatto alla trasmissione di informazioni.

La letteratura, però, è «un altro paio di maniche», per citare Manzoni. Si tratta di un macro-genere a parte, che ha sì dei punti di contatto con la scrittura mediatica, ma solo a tratti e in misura ridotta. Per questo motivo, di solito, non mi piace “mischiare” i due domini. La letteratura ha la fortuna di essere aperta a qualsiasi stile ed espediente, in quanto la sua funzione linguistica è prevalentemente poetica: non ha l’intento di informare o di commentare un avvenimento, propone una tematica “solo” con l’intento di dilettare insegnando qualcosa (delectare et docere, sostenevano gli antichi Romani). Perciò, la letteratura può permettersi di essere lirica, sconnessa, provocatoria, immaginifica, prolissa, singhiozzante, utopistica e qualunque altra cosa voglia essere. La sua bellezza – come quella di qualsiasi altra espressione artistica – risiede nella libertà di farne l’uso che si preferisce, in base a gusti personali, inclinazioni, ispirazione, umore e altre infinite variabili combinatorie. Personalmente, quindi, ecco perché mantengo separati letteratura e giornalismo.

Ciò non significa che io non abbia un buon rapporto con i mass-media, anzi. Trovo che siano uno strumento imprescindibile per mettere in pratica la libertà di espressione individuale, al riguardo la Francia illuminista ci ha insegnato davvero moltissimo. Questo spiega come mai già da tre anni io scriva per una testata free press nata nella mia città, Catania, da sempre apartitica e gestita unicamente da miei coetanei. Il nostro motto è «l’informazione dal tuo punto di vista», dove il “tuo” impersonale è riferito tanto ai lettori quanto a ciascuno di noi redattori: la voglia che abbiamo è quella di parlare senza veli di ogni argomento, essendone critici o sostenitori non sulla base della posizione della maggioranza, ma dei nostri valori e punti di vista.

Il mondo del giornalismo (non corrotto, propagandistico o censurato) mi piace perché è l’input più efficace e a nostra portata per instaurare un dialogo ragionato, equilibrato e sincero su argomenti che ci riguardano ogni giorno, nessuno escluso. Non è sicuramente il fine della libertà di espressione – il fine è la libertà stessa di avere una propria espressione –, però ne è un mezzo straordinario. Proprio la varietà di opinioni, infatti, e il desiderio di confrontarsi per arricchirsi a vicenda stanno alla base di un miglioramento socio-politico e culturale continuo. Un mondo che funzioni non può fondarsi su una sola convinzione: deve per sua natura accettare la diversità, ascoltarla e permetterle di avere una voce.

Tuttavia per me, allo stesso tempo, libertà di espressione deve sempre significare anche profondo rispetto. Ho spesso l’impressione che si confonda il diritto di dire ciò che si vuole con il diritto di dire ciò che volutamente offende il proprio interlocutore: questa non è più libertà, è inaccettabile mancanza di umanità. Essere taglienti, crudi o volgari priva ogni confronto di fini costruttivi e lo trasforma in una cieca e mediocre lite. Beethoven sosteneva di non conoscere nessun altro segno di superiorità nell’uomo che quello di essere gentile e io condivido la sua idea.

Alla luce di questo, ho con la satira un rapporto ambiguo: amo il sorriso che suscita quando dissacra con ironia intelligente determinate circostanze, perché si tratta di una contestazione a tutti gli effetti, acuta e originale. Non sono d’accordo, però, con la satira estrema, che offende e beffeggia l’oggetto del proprio attacco senza far riflettere, per il puro gusto di formulare giudizi di valore indisponenti e sterili. Per dirla citando degli esempi concreti, ammiro la libertà di espressione della fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore o delle novelle del Decameron, ma trovo sia una mancanza di considerazione della libertà altrui la satira della rivista italiana «Il Male» o di quella inglese «Jesus and Mo». Da persona laica e per ora agnostica, non apprezzo in ogni caso battute così pesanti su questioni religiose, personaggi pubblici e faccende diplomatiche, così come non le apprezzerei in nessun altro campo. A tutto c’è un limite, in considerazione del diritto di non essere diffamati.

 

Da grande sogni di essere giornalista e scrittrice, nonché traduttrice delle mie stesse opere. Quando alla tua età facevo affermazioni simili, benché non perfettamente identiche, mi rimproveravano di non avere le idee chiare, anche se si trattava, e ancora nel tuo caso si tratta, di vertici di un medesimo poligono settoriale. Oggi invece è la regola, è la società, e soprattutto il mercato del lavoro, a richiedere competenze plurime e, se possibile, flessibili. Tu che ne pensi?

Credo si sia ormai percepito che non sono una persona facilmente influenzabile. Non faccio, penso, dico o amo quello che rientra nella norma solo perché gli altri sono soliti farlo. Nel caso specifico, questo mio desiderio non ha a che fare con le regole del mercato del lavoro, a cui spero, invece, di non dovermi mai piegare rinnegando la mia natura o le mie passioni.

È vero, in effetti, che i mestieri di giornalista, traduttrice e scrittrice costituiscono i vertici di un medesimo poligono – nel mio caso, triangolo – settoriale, ma solo perché in simili attività sta per me il piacere più intenso in assoluto. Adoro il giornalismo per lo spazio che dà di commentare con forza e personalità tutti i meccanismi in cui siamo coinvolti nel momento attuale. In tal senso, sento di voler scrivere quando scrivere è vietato, quando quella con l'inchiostro diventa una lotta per la sopravvivenza contro ogni forma di ingiustizia. Adoro, poi, la scrittura poetica perché mi permette di esorcizzare da dietro le quinte ogni tipo di paura, emozione o situazione difficile da gestire: devo inventare per non ingannarmi, complicare tutto in versi per essere poi capace di sbrogliare la matassa e venirne a capo.

Allo stesso modo, ma per altri motivi, adoro la scrittura narrativa: in questo caso scrivo per de-scrivere immagini. Alcune le sento, altre le creo, altre arrivano e stanno ad abitare un po' dentro di me. E io me ne circondo, le coccolo tutte e mi ci affeziono, collezionandole finché non trovo il canale giusto per raccontarle. È indescrivibile il piacere che provo nel momento in cui una nuova idea affiora tra una nebbia di pensieri, o quello in cui scelgo le parole adatte per iniziare una nuova breve vita attraverso una pagina tutta da riempire. È un attimo solenne e dolcissimo, in cui mille alternative sgomitano per essere le predilette, fra tutti i possibili svolgimenti di una determinata vicenda: è l’attimo in cui si accendono le giuste lampadine fra le strade di enormi città interiori.

Quanto alla traduzione, ritengo sia un’arte generalmente sottovalutata. Studiando cinque lingue e letterature straniere all’università dopo essermi cimentata con latino e greco al liceo, sto capendo da vicino che tradurre non significa affidarsi a un dizionario parola per parola. Per capire un testo, sia da lettori che da traduttori, bisogna prima conoscere il mondo che c’è dietro: storico, psicologico e linguistico. Quando lo si è capito fino al midollo, bisogna poi trovare un metodo semplice e funzionale perché lo possa capire anche ogni altro lettore appartenente a un altro mondo. Ecco che, allora, la traduzione diventa ri-scrittura, ri-invenzione ai massimi gradi di creatività individuale e contemporaneamente fedeltà al messaggio di partenza. Una sfida straordinaria, insomma, e delicata tanto quanto un’operazione chirurgica: ogni termine è un microcosmo da sfiorare con devozione, da modificare nella maniera più indolore possibile e da svelare nella sua luce migliore a chi nell’idioma originario non lo conosce.

Giulia Carcasi sostiene che «scrivere è qualcosa di intimo, più intimo del sesso, quello si fa uno incastrato all'altro, si fa senza studiare il corpo che si ha di fronte, dentro. Scrivere è spogliarsi di fronte a qualcuno, lasciarsi guardare così, nudi e in piedi, pieni di difetti di carne». Ecco, io vorrei lasciarmi guardare così, ho iniziato a farlo su un quadernetto a righe che ho intitolato Parole sul mondo quando avevo cinque anni e la mia famiglia mi ha sempre incoraggiata moltissimo a proseguire, con stimoli e fiducia. Per cui, conciliare queste tre facce della scrittura significherebbe realizzare un vero e proprio sogno: sento di avere le idee chiarissime al riguardo. Peraltro, se non si può negare che il mercato del lavoro attuale valorizzi le conoscenze plurime, è altrettanto vero che prima lo ha fatto la tendenza alla cultura enciclopedica tipica del Medioevo: nei primi secoli dopo l’anno Mille era la prassi studiare ogni disciplina approfonditamente, senza specializzarsi più in medicina che in architettura. Non a caso, Dante Alighieri conosceva tanto la fisica aristotelica quanto la retorica classica – e così via. Flessibilità è sinonimo di apertura mentale: che poi torni utile durante un colloquio di lavoro è ottimo, ma secondo me non è questo lo scopo primario per cui la si dovrebbe acquisire.

Quando andavo a scuola, io stessa ambivo a conoscere tutto, senza tralasciare niente, neanche una volta iscrittami all’università: per anni ho suonato il pianoforte da autodidatta, ho seguito un corso di scacchi, ho aderito a competizioni di matematica e a iniziative sulla ricerca contro il cancro, ho partecipato a campionati di pallavolo e atletica leggera, ho conseguito la Patente Europea per il computer… Imparare è per me quanto di più stimolante ed entusiasmante ci sia, detesto il fatto di avere un percorso di studi e un’esistenza “limitati” e limitanti, non tanto perché il mercato del lavoro vorrebbe il contrario, quanto perché non riesco a concepire una disciplina che sia meno valida o interessante di altre. Averne già selezionate tre per una teorica carriera ideale, quindi, è per me un enorme traguardo. Sarà difficile riuscirci senza raccomandazioni, pubblicazioni a pagamento e altre scorciatoie simili, lo dico con amarezza, tuttavia non per questo scenderò a compromessi o getterò la spugna.

 

Sei «autoironica», parli per «autodefinizioni» o «per citazioni di intellettuali che ammiri». Perciò, per terminare questa chiacchierata, ti chiedo di descriverti in ognuno di questi tre modi, con autoironia, con un’autodefinizione e per il tramite di una citazione…

Domanda tanto bella quanto complicata! Essere autoironica a comando, in particolare, è difficilissimo. Comunque, provo a fare del mio meglio.

Quando rientro da un esame universitario, otto volte su dieci lo faccio con un 30 e lode. Però, a discapito dei miei vent’anni e delle soddisfazioni che ho in ambiti culturali e teorici, sono di una imbranataggine totale: zero senso pratico. Ancora adesso non credo di saper allacciarmi le scarpe come fanno tutti, per esempio. E poi rovescio in continuazione qualcosa quando cucino. Ogni volta che guido ho incontri ravvicinati del terzo tipo con i motorini che mi sorpassano e non sono capace di maneggiare le monete senza che qualcuna cada per terra. Certe volte la mia mamma mi osserva e mi chiede: «Com’è possibile che ancora non ti sia fatta mettere sotto da un autobus?». «Perché resto sempre dallo stesso lato del marciapiede, visto che non so attraversare la strada» le rispondo, tra il serio e il faceto.

Eppure, ecco, chiamo in mio aiuto un’autocitazione per parlare di me anche da un’altra prospettiva: «Al di là delle mie imperfezioni e di tutto quel che non va o non soddisfa, che è fastidioso, sciocco, inutile, dannoso, infantile o quant'altro, al di là di questo, dico, io sono felice di essere come sono. Sono felice di non essere attratta dalla gente influente piuttosto che da quella meno appariscente, magari insicura, ma con un sorriso vero addosso, di quelli che non si possono comprare e che ci si deve guadagnare col sudore della fronte e con il tempo. Sono felice di volermi tagliare le unghie per fare castelli di sabbia con i bambini senza spezzarmele, piuttosto che lasciarle lunghe e farle scivolare sulla schiena di qualcuno la notte di Ferragosto, giusto per eccitarlo, giusto per sapere che sono io a farlo eccitare. Sono felice di essere un po’ goffa e impacciata, piuttosto che provocante e magari volgare, e sono felice di non essere capace di mentire o di tradire la fiducia altrui.

Sono felice delle poesie che leggo e di quello che mi rende di buonumore: le passeggiate invernali in riva al mare, i cieli estivi al tramonto, i segreti stupidi e le grandi confidenze, il linguaggio cifrato con cui comunico con mio fratello, le scampagnate in mezzo al verde, la musica strumentale ascoltata sotto le coperte a notte fonda, le riflessioni pseudo-filosofiche tra me e me appena alzata, la pioggia che cade quando sono a casa e la pioggia che cade quando sono fuori, mi inzuppo e ci rido su, le preghiere recitate da mio nonno e le nostre partite a carte, i gatti che scappano se ci si avvicina troppo senza tatto, il momento in cui metto piede per la prima volta in un Paese straniero, le librerie antiche del centro storico, i film comici in bianco e nero, i colori dei fiori fra l’asfalto, le torte di compleanno, le lettere scritte a mano, i cartoni animati a lieto fine, le città d’arte e le partite di pallavolo giocate a maggio, quando si suda e si hanno il fiato corto e i capelli scompigliati.

Io sono questa. E mi piace scrivere ritornelli di canzoni sulla sabbia, fare il solletico alla persona che amo, guardare le stelle, andare in bici senza mani anche a costo di sbucciarmi ancora le ginocchia. Sono felice di essere così, il resto non importa. Ho una vita intera per imparare a farlo come si deve».

E, a proposito di vita, concludo con una citazione di uno fra i miei scrittori preferiti: «Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c'è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire è vivere che voglio. Ce la farò, vero? Vero che ce la farò?» (Oceano mare, Alessandro Baricco).


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