Premio Campiello 2019 – Intervista ad Andrea Tarabbia
Dopo Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie), Andrea Tarabbia ritorna nella cinquina del Premio Campiello con Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri), un romanzo che è un vero e proprio esercizio di letteratura.
Le domande e le risposte che seguono sono indirizzate non tanto a definire ed esaurire le problematiche inerenti ai rapporti “interni” della letteratura (artifici, invenzione, documentazione, destrutturazione, “diritti/doveri, ecc.), quanto a intensificare il senso stesso del fare letteratura. L'autore, sollecitato a rispondere, aggiunge la “gioia”, non certo fraintendibile in spensieratezza (tanto meno in superficialità), ma in un qualcosa che forma la stessa peculiarità dello scrivere: attenzione e attuazione (nei vari valori attribuibili dal lettore) dello strumento della narrazione. Tarabbia narra, il lettore a sua volta narra la propria lettura. Un romanzo che non offra alla lettura una seconda narrazione forse dura meno nella mente (animo) di chi lo legge. Il romanzo di Tarabbia offre questa basilare immersione nelle “gioie” durature della lettura.
Ciò che risalta in Madrigale senza suono è il confronto tra due modi diversi di esperire (e soffrire) l'esperienza artistica. Da un lato ciò che possiamo chiamare lamaledizione del processo creativo, dall'altro la ponderata e disciplinata ricerca dell'armonia. È una chiave di lettura che lei autore trova adeguata?
In un certo senso sì. Ma non si deve dimenticare che, in molti punti, Stravinskij scrive di aver scoperto un’affinità insospettabile con il principe e con la sua concezione di musica. Questo lo inquieta («Può un assassino essere un padre?» si domanda) e lo attrae, lo affascina: insomma scopre, in qualcuno che per vita, epoca, concezione e carattere è l’opposto di lui, dei tratti in cui si riconosce. Questo lo spinge a omaggiarlo, a tradurlo nel proprio linguaggio.
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A colpire è il muoversi contrappuntistico a più livelli: da un lato i due musicisti, Gesualdo da Venosa e Stravinsky, tra i due il biografo del primo nella persona a sua volta proposta (forse inventata) da chissà quale altro narratore. A coinvolgere è la stratificazione narrativa messa in atto per fare letteratura (verrebbe da dire pura letteratura). Il suo romanzo richiede un intenso sforzo di straniamento e interpretazione da parte del lettore. È così arbitrario e fuorviante parlare di “costruzione magmatica” di dosata teatralità?
No, non lo è. L’idea era proprio quella di creare un magma, un gioco di voci che si inseguono e si fanno da contrappunto, come le voci di un madrigale. Epperò, allo stesso tempo, tutto doveva risultare leggibile, fruibile da ogni tipo di lettore. Il romanzo ha, per così dire, un livello “meta” che vien fuori dalla compenetrazione di tutti gli strati narrativi, dal gioco dei rimandi tra le epoche, le strutture sotterranee modellate sulla musica e sul pensiero dell’epoca di Gesualdo; ma ha anche un livello più superficiale: riporta alla luce l’incredibile storia di questo nostro Caravaggio della musica, ne racconta la vita tragica e buffa, e lo fa attraverso gli occhi di qualcuno che lo ha riscoperto e rilanciato – Igor Stravinskij.
L'artificio in letteratura è un pleonasmo. Leggendo il suo romanzo si fa chiarezza sui diritti dell'invenzione. In letteratura si può dire di tutto, senza remore di contenuto, morale, giustizia, ecc. Massima libertà dell'arte. In questo caso si dovrebbe parlare di dovere oltre che di diritti da parte dell'invenzione.Dovere che lei in quanto scrittore responsabile assolve inventando su basi storiche: Gesualdo, i suoi madrigali, le sue folli gesta, personaggi quali Torquato Tasso e altri, infine Stravinsky. Così l'artificio prende corpo e giustificazione. In che misura possiamo dire che in questo romanzo artificio e letteratura si sostengono vicendevolmente?
Il libro trabocca di filtri e artifici: lettere, manoscritti ritrovati, cliché di genere (che però hanno una base documentale, giacché Gesualdo in un castello ci viveva davvero e ebbe realmente a che fare con la stregoneria). L’idea era in fondo semplice: una delle cose che Gesualdo e Stravinskij hanno in comune è che nella loro musica hanno preso forme precedenti e le hanno rimescolate, attualizzate, fatte proprie; se volevo star loro vicino, dovevo fare lo stesso con le forme della letteratura – dunque recuperare vecchi stilemi e provare a portarli nel 2019.
Quanto alla questione diritti/doveri: non so bene fare una distinzione. Di sicuro chi scrive ha il diritto di inventare e, allo stesso tempo, il dovere di portare rispetto alla materia di cui parla, sia essa un documento o la vita di qualcuno che è realmente esistito. Ma tutto diventa confuso quando si ha a che fare con personaggi, come Gesualdo da Venosa, le cui gesta, belle e terribili insieme, sono da secoli ammantate di leggenda. Dove sta la verità, il fatto? In ciò che lui ha commesso il giorno x o anche nei racconti, nelle fiabe apocrife che in tre secoli di invenzioni e leggende sono fiorite attorno a lui? Se fossi uno storico non avrei dubbi: Dio è il fatto. Ma sono un romanziere, e so che esiste l’immaginario, il mito, dunque devo fare i conti anche con loro.
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Come è nata l'idea del libro? Dall'esperienza della lettura? Dall'interesse specifico per la musica? Dal groviglio filosofico che avvolge l'arte? Da temi a lei congeniali come scrittore? Dal caso fortuito di un ritrovamento?
La musica naturalmente mi interessa, ma non ci sarebbe stato Madrigale se, alcuni anni fa, non avessi incontrato Gesualdo per caso vedendo un documentario di Werner Herzog a lui dedicato. Lì, si è accesa come una luce: nella vita e negli atti del principe c’erano, in nuce, tutti i miei temi – mi sono reso conto che lavorando su di lui avrei potuto ulteriormente sviluppare certi discorsi nati con Il demone a Beslan e Il giardino delle mosche.
Tuttavia, non avrei scritto il romanzo se non fossi incappato in Stravinskij. È Stravinskij la chiave di tutto: mi permette di rileggere, di commentare, di parlare del Novecento, di costruire lo strambo rapporto padre-figlio a distanza che è il sottotema del romanzo e, infine, di non fare un romanzo storico, bensì un’opera che mostra una relazione tra ciò che siamo e ciò che siamo stati.
Come si è definita la struttura complessa del romanzo? Ha avuto fin dall'inizio un preciso schema di sviluppo, oppure le vicende spesso impreviste ed eclatanti sono nate per accumulazioni di volta in volta elaborate e disciplinate? Il lettore ha l'impressione che il suo lavoro, viste la complessità e spettacolarità dei materiali trattati, abbia avuto bisogno di un'assidua opera di controllo per non rischiare troppo la gratuità e l'eccesso. Può confermarlo?
In realtà è un libro che ho scritto molto liberamente, divertendomi. Stabilita la “gabbia” (prologo-epilogo-testo principale-commenti) ho scritto con una felicità e una facilità che non provavo da tempo. Esiste una prima versione del romanzo in cui compaiono delle note a piè di pagina: volevo che il lettore continuamente uscisse dalla storia e dal Seicento e continuamente si confrontasse con una serie di artifici metatestuali. Ma poi ho deciso di sviluppare meglio le parti stravinskiane, così alcune informazioni contenute nelle note a piè di pagina sono finite nei corsivi di Igor.
Più in generale: non parto mai a scrivere se non ho chiara la struttura del libro e come dovrà essere scritto. Mi do dei paletti quando non ho ancora in mente che cosa scriverò nella prima pagina. Poi, una volta stabiliti questi paletti, mi sento libero di valicare secoli e generi. Insomma: traccio gli ampi confini di un mondo dentro il quale so che potrò fare ciò che voglio. Se ci pensa, è la massima libertà possibile.
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Lo spettro della Morte è presenza fissa, legante simbolico dell'espressione artistica. È così? Che l'arte sia la porta della felicità il suo romanzo sembra escluderlo. Nel fare letteratura ha inteso comporre un'allegoria della tensione drammatica (mortale) dell'arte? Del paradosso che l'arte è dolore se vuol essere arte vera. Tragedia anche quando si fa commedia. Non è forse la favola la secreta più buia dell'arte? Da ciò si evincerebbe che lei, scrittore, non è pervaso da concezioni pessimistiche e catastrofiche, quanto dalla ferrea intenzionedi voler rappresentare (scrivere) e rimanere fedele alla (vera) letteratura.
La morte è una presenza fissa di tutti i miei libri, è il perno attorno al quale, finora, tutto ha ruotato e ruota. Alcuni mesi fa, mi lamentavo con Luca Doninelli dicendogli che mi piacerebbe saper parlare di più e meglio dell’amore. Ebbene, Luca mi ha dato una risposta che ancora mi fa riflettere: «Ma tutti i tuoi libri parlano dell’amore. Solo che tu l’amore non lo cerchi nella vita, ma nella morte».
Detto questo, non credo esista un’equazione in grado di definire cosa sia l’arte o la letteratura. Non vale l’equivalenza dolore=arte vera. Se così fosse, se ci fosse una regola, avremmo opere tutte uguali. Inoltre, grazie a dio, la commedia vale quanto la tragedia – anzi, spesso di più. Quello che posso dire è che io credo in questa cosa che si chiama letteratura, credo nella profondità e nella complessità, credo nell’inattualità dell’opera d’arte: cerco tutte queste cose nei libri che leggo e, di conseguenza, provo a confrontarmi con esse nei libri che scrivo.
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Il suo romanzo è inconsueto nel panorama letterario non solo italiano. Cosa pensa del dilagare della letteratura “gialla” (e rosa)? Si sente emarginato? Minacciato? La sua fede letteraria vacilla o si rinforza?
Non saprei. Non mi sento né emarginato né minacciato – dopotutto sono al mio secondo Campiello, sarei ipocrita se facessi la posa del reietto. Leggo pochi, pochissimi gialli: uno ogni due o tre anni, di solito d’estate e distrattamente. Non mi interessa sapere chi è l’assassino e non vivo la lettura come intrattenimento – anche se mi diverte moltissimo leggere. La mia fede letteraria, come lei la definisce, è abbastanza disattenta a ciò che succede intorno o in classifica. Voglio dire: ho spesso dei dubbi anche consistenti sul mio lavoro, ma non vengono mai completamente da fuori, non sono mai del tutto un riflesso di quello che succede nella letteratura, sia essa quella mainstream o di ricerca. Leggo i miei contemporanei perché amo leggere – alcuni di loro mi piacciono, altri no, altri ancora mi indicano strade possibili, e quest’ultima cosa è molto utile, perché arricchisce l’impasto della mia concezione letteraria e la aiuta a maturare. Ma tutto questo è dentro un percorso, una visione che sono andato formando negli anni e su cui ancora lavoro, e sarebbe stupido, da parte mia, modificarla per via dei titoli che vanno per la maggiore.
Come si sta preparando o si preparerà per la serata finale del Premio Campiello?
Sto ostinatamente rinviando il momento in cui dovrò comprarmi il vestito per la Fenice!
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