Premio Campiello 2018 – Intervista a Rosella Postorino
Intervista a cura di Monica Bedana e Morgan Palmas
Le assaggiatrici di Rosella Postorino (Feltrinelli) getta luce sulle donne che assaggiavano i pasti destinati a Hitler per prevenire eventuali attentati per avvelenamento.
Sul loro ruolo, sulle loro figure, così come sullo stesso Hitler, abbiamo parlato con Rosella Postorino nell’intervista che ci ha gentilmente concesso in occasione della sua inclusione nella cinquina del Premio Campiello 2018.
Il suo romanzo ci racconta qualcosa, anche se indirettamente, delle paure del Führer. Che idea si è fatta di lui guardandolo attraverso gli occhi delle assaggiatrici?
Non credo che la figura di Hitler sia una figura su cui «farsi un’idea», e d’altronde non l’ho guardata attraverso gli occhi delle assaggiatrici, che non lo incontrano mai di persona, ma attraverso gli occhi di chi era a stretto contatto con lui per questioni professionali e non solo, penso quindi al cuoco, al tenente Ziegler, alla baronessa Maria. Nel romanzo Hitler è volutamente raccontato in maniera mediata, cioè attraverso la sua rappresentazione, che è di due tipi: quella della propaganda, che lo vuole uomo della Provvidenza, figura messianica, e quella di chi lo conosce da vicino, che invece lo tratta come una persona che gli sta a cuore, o comunque come una persona, e di conseguenza come un corpo, con tutte le sue fragilità. Il cuoco racconta a Rosa, la mia protagonista, delle ossessioni alimentari del Führer, del suo rifiuto della carne dovuto all’orrore verso i macelli, che tanto ci stupisce in chi ha concepito lo sterminio sistematico di milioni di esseri umani, dei suoi problemi gastrointestinali, che lo inducono a prendere ben sedici pillole antiflatulenza al giorno (lo chef ne parla con atteggiamento tutoriale, non vuole ridicolizzarlo, e tuttavia di fatto accade!); Ziegler parla delle sue insonnie e delle sue assurde fissazioni, come la necessità di sentir gracidare le rane per addormentarsi; e Maria è divertita dal «bulletto» che Hitler era da bambino. Ecco, io non avevo alcuna intenzione di «farmi un’idea» di Hitler: da romanziere, volevo raccontarlo attraverso gli occhi di alcuni dei personaggi. È un’intenzione narrativa, semmai, quella che mi premeva mettere in atto. Questa intenzione narrativa mi ha consentito di raccontarlo da un lato come una specie di gas letale, una divinità che incombe decidendo della vita e della morte di tutti, dall’altro come un essere umano – dimenticarsi che lo era sarebbe una forma di deresponsabilizzazione verso ciò che la specie umana può commettere – e dunque come un corpo che si inceppa, fino a diventare ridicolo.
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Lei ha dato voce a persone dimenticate dalla storia, a chi ha messo a rischio la propria vita – volontariamente o sotto costrizione – per salvare il potente di turno. Qual è il compito della letteratura rispetto a questi sacrificati della storia e della politica?
L’unico compito della letteratura è di essere bella. La bellezza è purtroppo un concetto vago, me ne rendo conto, ma trovo pericoloso mettere vincoli alla letteratura. Non deve avere altri scopi che non siano se stessa. Detto questo, mi interessa molto raccontare il modo in cui la Storia fa deragliare le storie personali, il modo in cui i fenomeni che siamo abituati a leggere con lo sguardo della sociologia o della cronaca (penso alla mafia nel mio secondo romanzo, L’estate che perdemmo Dio, o alle condizioni carcerarie nel mio terzo romanzo, Il corpo docile) si riverberano nel privato, nelle relazioni fra gli individui. Il motivo per cui il Diario di Anne Frank ha un impatto più forte di un manuale di Storia è che racconta la vicenda di una persona della quale conosciamo pensieri, sentimenti, idiosincrasie, verso la quale proviamo empatia. Il motivo per cui oggi è possibile dire «chiudiamo i porti» è invece proprio la mancanza di empatia, l’incapacità di ricordarsi che dietro la parola «migranti» esistono esseri umani con sogni, dolori e desideri. Una volta, in un testo che mi aveva chiesto Giulio Mozzi (una puntata della serie La formazione della scrittrice) ho detto che «già a nove anni io assegnavo alla scrittura un valore testimoniale. Non di un’epoca storica o di una tragedia sociale, o non soltanto. La scrittura testimoniava di ogni singola esistenza accaduta come evento sulla Terra. Rivelando qualcosa di un singolo individuo – reale o fittizio, non aveva importanza – rivelava qualcosa di tutti, e lo faceva per tutti».
Rosa segue la via obbligata per sopravvivere, era davvero tale la via oppure la libertà finisce nel momento in cui si è circondati da forze sociali e politiche molto più grandi del singolo individuo?
Ogni volta che qualcuno mi dice che si è sempre liberi di scegliere, io penso che è un po’ più complicato di così. È vero che puoi scegliere se pagare o no il pizzo, a rischio però che brucino il tuo locale o negozio. È vero che puoi scegliere di non cedere a un ricatto sul lavoro, a rischio però di perdere il lavoro. Con questo ovviamente non sto giustificando comportamenti illeciti o illegali o lesivi della propria dignità e di quella altrui, penso solo che la richiesta di eroismo sia una richiesta comunque ingiusta. Lo stesso Karl Jaspers, ne La questione della colpa, scrive che «moralmente non esiste nessuna pretesa di sacrificare la propria vita, soprattutto se non se ne ottiene nulla. Chiedere alla popolazione di rivoltarsi contro uno stato terroristico è ingiusto, è chiedere l’impossibile», sebbene in quel testo lui allarghi la colpa dei tedeschi – che è politica, perché hanno accettato il regime nazista, e morale, per chi ha colluso con quel regime – addirittura alla colpa metafisica, cioè l’essere sopravvissuti mentre altri soccombevano: «Che noi siamo ancora vivi, – dice, – questa è la nostra colpa». Non è una colpa metafisica, mi domando, oltre che politica di certo, quella di assistere pressoché inerti al genocidio che si compie da anni nel Mediterraneo? Il fatto che Rosa racconti la propria storia al passato remoto, da un tempo in cui non può non sapere cos’è accaduto, in cui è ormai chiaro e lampante che cosa sia stato il Terzo Reich, è scritto nero su bianco sui libri di Storia, non è casuale. Per me, nella costruzione del romanzo, questo era necessario. In fondo, la sua colpa durante la guerra era semplicemente mangiare, un gesto «innocuo», dice, e indispensabile per sopravvivere. E per di più un gesto che metteva a rischio la sua stessa vita, che la rendeva vittima, cavia, che la deumanizzava. Se nel romanzo lei lo percepisce come colpa è perché lo racconta da un oggi in cui sa che quel gesto la rendeva ingranaggio di un sistema spietato e intollerabile: mentre lo faceva, probabilmente non ne era così consapevole.
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Un corpo, quello di Rosa, che diventa mezzo per la politica. Quali erano i confini, secondo lei, fra coscienza e volontà di una donna in un regime come quello di Hitler?
Quali erano i confini fra coscienza e volontà di un uomo in un regime come quello di Hitler? Andare in guerra a combattere un nemico che altri hanno stabilito essere tuo nemico (e magari attraverso la propaganda ti hanno convinto che sia tale al punto che lo odi anche tu) significa mettere il proprio corpo al servizio di una causa più grande della tua stessa vita, di qualcosa che conta molto di più della tua vita, cioè la Patria. Le assaggiatrici sono per me un piccolo esercito che sacrifica la propria esistenza per salvaguardare Hitler e il suo regime, e lo fa perché non ha scelta o perché è in un tale stato di precarietà esistenziale da credere di non avere scelta. Un esercito «ridicolo», lo definisce Rosa, destinato eventualmente a una morte non eroica, perché «le donne non muoiono da eroi».
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Si è scritto molto delle pulsioni umane che attraversano il romanzo e spingono queste donne ad afferrarsi alla sopravvivenza anche quando la vita è una trincea e non si finisce più di contare i morti e i dispersi. Nel romanzo, però, il cibo in sé cattura l’attenzione del lettore con la stessa intensità delle vicende vissute dai protagonisti. Come e dove è avvenuta la sua ricerca sul cibo consumato da Hitler?
Ho letto per esempio memoir firmati da persone che hanno lavorato con lui, come due delle sue segretarie, o un profilo psicologico stilato da uno psicanalista per conto dei servizi segreti americani, e ho trovato addirittura un libro sulla sua alimentazione, con tanto di ricette, ma anche Margot Wölk, la persona reale che mi ha ispirato il personaggio di Rosa, ne ha parlato nelle sue interviste. I dettagli sul cibo per me avevano valore di documentazione, tuttavia quel che del cibo mi interessa in questo romanzo è la metafora che rappresenta: per sopravvivere devi mangiare, anche se questo può ucciderti. Per sopravvivere, cioè, devi vivere, rischiando ogni giorno la morte.
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Come si sta preparando o si preparerà in vista della serata finale del Premio Campiello?
Non credo ci si debba preparare. A fine luglio terminerà il tour, che è la cosa più faticosa ma anche la più divertente. Dopo, tutto quel che si può fare è scegliere un vestito adatto all’occasione.
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