Premio Campiello 2018 – Intervista a Helena Janeczek
È nella cinquina del Premio Campiello2018 il romanzo di Helena Janeczek La ragazza con la Leica, edito da Guanda. Un romanzo che attraverso tre diverse voci narranti, contemporaneamente personaggi, ha dato vita alla leggerezza, forza e passione della fotoreporter Gerda Taro, morta a soli 27 anni sul campo di battaglia mentre documentava la guerra civile spagnola.
Proprio alla nostra autrice Sul Romanzo ha voluto rivolgere alcune domande per indagare sulla genesi di quest'opera e il lavoro di documentazione alla base della sua realizzazione.
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Gerda Taro è La ragazza con la Leica. Una fotereporter caduta sul campo giovanissima a soli 27 anni, pagando con la vita la sua voglia di raccontare attraverso le immagini. Una testimone del ribollire dei fascismi in Europa all'alba della seconda guerra mondiale. Come è avvenuto il suo incontro con Gerda tanto da sceglierla come protagonista del suo romanzo?
L’incontro è nato a una mostra nel 2009 a Milano, una doppia mostra di fotografia di Robert Capa e Gerda Taro. Esposto per la prima volta,c’era il corpus fotografico di Gerda accanto auna selezione dei reportagedi guerra di Capa. Ero andata lì per vedere le foto italiane di quest'ultimo perché in quel periodo stavo lavorando a Le rondini di Montecassino che ruota attorno alla battaglia di Montecassino e mi era già confrontata con il materiale iconografico di Capa.
È stato lì che ho conosciuto Gerda. Mi incuriosiva quelladonna che ha scelto un mestiere così maschile lasciandoci la vita. Sono rimasta affascinata dalla ricchezza e persino contraddittorietà del personaggio, e poi mi interessava il periodo storico che Taro ha attraversato nella sua breve vita.
Un romanzo calato in un contesto storico molto denso che è parte integrante del plot narrativo. Così come i personaggi, figure realmente vissute. Quale lavoro di documentazione c'è dietro al suo lavoro letterario? Quanto è stato difficile riannodare fili, recuperare tasselli e le testimonianze?
C'è stato un grande lavoro di documentazione sia per i diversi momenti e contesti storici che questo libro attraversa, sia perché è stato necessario ricostruire le vicende biografiche dei tre personaggi che fungono da narratori del percorso di Gerda Taro. È stato un lavoro lungo, ma per scrivere un libro così occorre accumulare più materiali e conoscenze di quelli che poi finiscono nelle pagine.
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Originale la scelta di raccontare Gerda attraverso i suoi amici, i suoi amori. Ognuno con una prospettiva diversa parla di Gerda ma contemporaneamente è la stessa nostra fotoreporter a connotare e a dare vita a questi che nel romanzo diventano "aiutanti" ma anche testimoni e coprotagonisti della sua vita. Come ha ritrovato Willy, Ruth, Georg?
Li ho incontrati attraverso la biografia di Gerda Taro e poi mi sono procurata altra documentazione su di loro. La biografa Irme Schaber mi ha messo a disposizione materiali, lettere, interviste per capire di più di Gerda e delle relazioni con questi amici e compagni. Loro sono veicoli per restituire Gerda ma anche personaggi con cui i lettori possono entrare in empatia. La scelta di questo sguardo prospettico è dipesa in primo luogo dal fatto che mi premeva restituire il fascino che lei sprigionava, l’amore che suscitava in quelli che sono stati i suoi fidanzati o amici. A me interessava raccontare e restituire quel che resta di una persona a cui abbiamo voluto molto bene nel momento in cui non c’è più.
La memoria di Gerda porta con sé la memoria di quel periodo storico e del come è stato vissuto dagli altri tre amici che sono rimasti vivi: periodo di lotte contro l'evolversi della storia sempre più cupo, ma anche momento culmine della loro giovinezza.
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Ritornando a Gerda possiamo dire che lei ne riconsegna l'immagine di una donna fuori da qualsiasi stereotipo che scopre se stessa attraverso l'amore per la fotografia ma tutto vuol essere tranne che “un'eroina”…
Gerda era una donna molto coraggiosa e determinata che attraverso il lavoro di fotoreporter prendeva parte alla lotta antifascista in cui credeva. La stoffa dell’eroina è davvero iscritta nella sua storia. Solo che lei non voleva essere eroica in quel senso e io non volevo ritrarla censurando gli aspetti discutibili della sua personalità che trovavo, anzi, molto affascinanti. Gerda ha avuto una straordinaria capacità di adattarsi alle situazioni pur rimanendo se stessa, con tutti i suoi pregi e difetti. Quando diventa una fotografa militante non rinuncia ai suoi lati più “civettuoli”: sia nella cura di sé, sia nel conservare uno spirito sempre disposto a gustare ogni momento di gioia e leggerezza. Questo la rende fuori dagli schemi.
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Forzando la mano nella sua scelta di raccontarci Gerda c'è anche il desiderio di portare alla luce attraverso la letteratura una storia rimasta troppo nell'ombra anche a causa di una luce più forte quale quella di Robert Capa?
Questo non è il mio merito ma piuttosto della sua biografa che l'ha tirata fuori dal dimenticatoio. In realtà quando ho cominciato a raccontare Gerda Taro era già un nome noto a chi si interessa di fotografia, riconsegnata al suo ruolo pionieristico di reporter di guerra e apprezzata per il suo talento. Giocoforza, però, la sua fama viene sempre collegata al suo compagno Robert Capa e a me premeva non schiacciarla nel ruolo della “ragazza di…” La loro relazione era molto libera e paritetica, cosa che la rende, a mio parere, ancora più interessante da raccontare. Ma al tempo stesso l’oblio a cui era stata consegnata per decenni la figura di Gerda Taro mette in evidenza come la fama di un uomo possa eclissare una donna straordinaria, senza che quest’ultimo si sia mai attivamente adoperato per metterla in ombra.
Come si sta preparando o si preparerà in vista della serata finale del Premio Campiello?
Non mi preparo. Sono semplicemente felice di questa nomina.
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