Premio Campiello 2017 – Intervista a Mauro Covacich
Un romanzo fatto di storie di persone e non personaggi, così Mauro Covacich definisce il suo La città interiore, edito da La nave di Teseo e finalista del Premio Campiello 2017.
Il racconto di una relazione padre-figlio rivissuta attraverso quella precedente tra il proprio genitore e il suo di padre è l’occasione per porre al centro Trieste e l’identità di chi deve fare i conti col suo essere insieme slavo e italiano. E in fine dei conti il romanzo di Covacich è anche questo: un voler fare i conti con un’identità di frontiera che vive costitutivamente di un sentimento di non appartenenza.
E sono proprio questi i temi di cui abbiamo parlato con Mauro Covacich nell’intervista che ci ha rilasciato per il nostro speciale dedicato al Premio Campiello.
Il libro inizia con due episodi risalenti al 4 maggio 1945 e al 5 agosto 1972. Siamo a Trieste in due momenti diversi della storia della città. Sulla scena sempre due bambini (la prima volta è suo padre, la seconda è lei) che si relazionano con il proprio padre in una situazione di difficoltà. Quanto conta per lei la relazione padre-figlio? E quanto può influenzare il futuro di un bambino?
Scrivendo questo libro mi sono detto cose su mio padre che non sapevo di pensare. La scrittura ha questo effetto autorivelativo, almeno per me. I due primi capitoli sono nati insieme dalla specularità del rapporto di mio padre con il suo (mio nonno) e del mio rapporto con lui. Entrambi gli episodi, nel 1945 e nel 1972, ci ritraggono a sette anni, entrambi devoti al padre, solo che poi, direbbe Freud, abbiamo risolto l’Edipo in due modi diversi.
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La prima immagine di Trieste ci è restituita grazie agli occhi di suo padre ancora bambino che per muoversi attraverso la città «segue riferimenti emotivi, talvolta geometrici». Quali sono stati i riferimenti emotivi di cui si è servito per raccontare la sua Trieste e che non ha dichiarato apertamente nel libro?
Quelli di cui sono consapevole, in primis l’agendina di mia nonna, sono tutti dichiarati. Poi c’è l’inconscio. La citta interiore è solo ciò che sono stato capace di portare in luce dal fondo oscuro che domina la psiche. Chissà quante altre cose ci sono di cui non so nulla.
Fino a che punto è possibile considerare questo suo libro come il tentativo di riappropriarsi dei propri luoghi, di ricostruirsi una patria?
In una certa misura è così, purché si tratti della patria di un “italiano sbagliato”, come diceva di sé Quarantotti Gambini. Ma il libro nasce da un’esigenza diversa: è una specie di “ritratto dell’artista da cucciolo”, solo che il mio pedigree è quello di un meticcio.
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Da Freud a Svevo, da Joyce a Saba, Antonio Bibalo, Claudio Magris… sono molti i nomi importanti che incontriamo durante la rievocazione della sua Trieste. Oggi cosa conserva la città del loro passaggio?
Trieste è particolarmente affezionata al passato e ai suoi nomi illustri. Magris poi, che rappresenta il presente, è un riferimento etico e non solo letterario per la città. Semmai il problema per Trieste è non sapersi aprire al futuro, non saper valorizzare la capacità delle due comunità, quella italiana e quella slovena, nell’aver trasceso l’odio in una forma di convivenza. Capacità che farebbe di Trieste una specie di progetto pilota e le permetterebbe di mettersi in dialogo con città che, pur non rientrando nella tradizione mitteleuropea, hanno compiuto la medesima trasformazione: Città del Capo, Montreal, Gerusalemme, Belfast, ecc.
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Uno dei momenti più intensi è il suo viaggio nel tentativo di ritrovare la tomba di Ivan Goran Kovačić, il poeta partigiano ucciso dai cetnici nel 1942. Spiegando le ragioni del viaggio lei scrive di ricercare «una stele funeraria, la croce del fratello morto che mi assolva dall’indifferenza. Dalla non appartenenza». Quanto incide sulla sua scrittura questo senso di non appartenenza?
Ho rimandato per troppi anni, prima o poi sentivo di dover fare i conti con questo sentimento. La non appartenenza, un senso sottile e persistente di estraneità, soggiace nell’animo di ogni triestino. La stranezza di aver trovato casa nell’italiano e di averlo imparato sui libri di scuola, ad esempio. Come Saba, come Svevo, si parva licet...
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«Sei italiano o sei slavo? Se porti quel nome perché non parli croato? Se sei italiano perché ti chiami così?». Quanta fatica costa fare i conti con quest’identità di frontiera?
Ripeto, a lungo ho girato la testa dall’altra parte, ho cercato di non badarci. Mi spaventavano i cascami retorici dell’espressione “identità di frontiera”. Poi la questione si è messa a bussare sempre più forte, finché le ho aperto. Ma non avrei mai scritto “su” questo, ho preferito che la questione prendesse corpo attraverso le storie delle persone che popolano il libro: persone, non personaggi, perché questo è un romanzo di vita, la mia vita, se però consideriamo la vita di ognuno come un intreccio di luoghi, esperienze, persone che ci precedono e danno conto di quello che siamo.
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Per la prima foto, copyright: Tim Marshall.
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