Premio Campiello 2017 – Intervista a Laura Pugno
S’intitola La ragazza selvaggia ed è edito da Marsilio il libro con cui Laura Pugno approda nella cinquina finale del Premio Campiello 2017.
Ci racconta di Dasha, che come in una fiaba dal sapore antico ma dal gusto ancora attualissimo, viene abbandonata nel bosco dalla sorella gemella. Ma racconta anche di Tessa, anche lei smarritasi nel bosco per sua scelta. E ci parla questo libro anche del bosco stesso, di cosa questo luogo insieme incantato e pauroso può rappresentare per noi quando siamo alla ricerca di un luogo in cui smarrirci per non farci trovare dal dolore.
E da qui abbiamo iniziato la nostra intervista a Laura Pugno, che ha risposto a qualche domanda nell’ambito del nostro speciale dedicato al Premio Campiello.
Cominciamo dall’incipit del libro, che è subito molto evocativo: «Tessa aprì la porta sul buio del bosco. Di colpo, l’oscurità assoluta». Che cosa rappresentano il buio e il bosco per Tessa? E per Laura Pugno?
Il buio e il bosco sono un luogo su cui si apre una porta, sono ciò che sta oltre la porta della nostra casa, ma anche ciò che – naturalmente – è più dentro noi stessi. Sono il familiare che è anche il perturbante, l’unheimlich che è pure tutto quello da cui giorno dopo giorno ci allontaniamo, a volte senza neanche rendercene conto. Per antichissima tradizione, il bosco è il luogo dell’incontro, quello in cui si verrà messi definitivamente alla prova. Per Dasha e Tessa, la ragazza selvaggia del titolo e la ricercatrice che la ritrova, paradossalmente questa logica per noi “naturale” si rovescia nel suo contrario: il luogo delle prove estreme sarà la città a cui fare ritorno, nel buio dell’inverno, nel mese – dicembre – della maggiore nostalgia della luce.
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La ragazza selvaggia del titolo è appunto Dasha, che a un certo punto s’isolerà nel bosco per dieci anni. Cosa spinge quest’ultima all’isolamento? E cosa potrebbe trovare nel bosco?
Le cose sono davvero andate così come lascia immaginare questa domanda? Dasha viene portata nel bosco dalla sorella gemella Nina, che desidera – un desiderio infantile e terribile, per cui forse a un certo punto, da adulta, cercherà la morte – disfarsi di lei, abbandonarla. E Dasha davvero non fa ritorno, per dieci anni. Scappa, si perde? Quando alla fine viene ritrovata, o decide di farsi ritrovare dalla ricercatrice Tessa – che come lei in un certo senso vive nel bosco, o almeno ai suoi margini, sulla soglia –, Dasha ormai è irraggiungibile, inattingibile, ha perso l’arte umana del linguaggio, che però, suggerisce il suo passato, potrebbe anche non aver mai conquistato. In realtà noi lettori non sapremo mai tutto di Dasha e in questo siamo simili ai personaggi del romanzo: la leggiamo con occhi umani, come facciamo, e non possiamo fare altro, con la natura intorno a noi. Cerchiamo di immaginare come sia avere sensi diversi dai nostri, come i falchi, i lupi o anche i cani a noi così familiari, ma è qualcosa di cui non possiamo fare esperienza diretta. E al lettore resta il dubbio che Dasha, che è cresciuta accanto a un bosco molto lontano e ormai contaminato, abbia deciso, con una di quelle decisioni che si prendono prima con il corpo che con la mente, di perdersi in un altro bosco. E allo stesso tempo, rimane il dubbio opposto: che questa sia solo una fantasia consolatoria, una di quelle che ci permettono, giorno dopo giorno, di sopravvivere.
Come diceva prima, Dasha ha anche una sorella gemella, Nina. Insieme a questa, dopo il disastro di Černobyl', viene adottata dall’industriale Giorgio Held. A differenza di Dasha, però, Nina s’integra al punto da voler ritornare in società dopo la fuga nel bosco. Per quale ragione ha voluto porre l’accento su questa differenza di fondo tra due sorelle gemelle?
La rottura del legame simbiotico tra le due protagoniste del romanzo, Nina e Dasha – perché anche Nina è una “ragazza selvaggia”, in un modo diverso – scatena l’incidente che dà il via alla narrazione della storia. Ogni racconto parte da una rottura, una separazione, ripete il percorso su cui tutti noi ci avviamo quando, come Nina e Dasha, entriamo nell’adolescenza e dobbiamo separarci, necessariamente, in qualche misura dalla nostra famiglia d’origine. È così già nelle fiabe, i racconti più antichi insieme ai miti. Dasha all’inizio della storia, nei flashback che narrano il passato della famiglia Held che l’adotterà, è quasi una parte di Nina, sembra non avere vita propria: Nina è il suo mondo, fa tutt’uno con lei come si fa tutt’uno con il proprio corpo. Quando questo legame si rompe, Dasha perde tutto, e quindi diventa capace di tutto, oppure corre il rischio di essere annientata.
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Mi sembra di poter dire che il suo romanzo ponga molta attenzione sul tema dell’identità e della sua complessità, nel senso di difficoltà a ricondurla a unità statica: Tessa è anche la ricercatrice Teresa Santanera così come Dasha è allo stesso tempo Daria Held (il nome ricevuto subito dopo l’adozione). Quanto è difficile, in casi come questi, far convivere il proprio io privato con la dimensione pubblica e con l’io con il quale la società e il contesto in cui agiamo ci identificano?
Domanda interessante oggi, in cui viviamo in una “casa di vetro” digitale che paradossalmente ci fa tornare a tempi molto antichi, in cui si viveva in pubblico. Il nuovo nome, nel romanzo, è uno strumento per attraversare il dolore, o come la zia Sagitta, che è un po’ strega, dice a Tessa bambina, per non farsi trovare dal dolore. Da adulta, direi: per trovare il dolore nel luogo e nel modo in cui possiamo resistervi. Per Tessa (e Dasha) quel luogo è il bosco, ma a un certo punto anche quel luogo insieme rassicurante e terribile dovrà essere abbandonato per tornare nel mondo.
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Mi perdoni la domanda eccessivamente diretta: in questo gioco di identità, a fuggire è Daria Held o Dasha?
A fuggire, o a essere abbandonata, è la ragazza selvaggia. Direi Dasha. Ma le due identità sono una, come il corpo e la mente, o noi e il mondo.
Riportata in società, Dasha dev’essere rieducata e riaddomesticata per diventare una volta per tutte Daria Held. Al di là del risultato finale, quanto può essere doloroso questo processo per chi lo subisce?
Oggi non possiamo più credere, come ai tempi di Jean Itard, il medico che si prese cura alla fine del Settecento del “ragazzo selvaggio” Victor de l’Aveyron – di cui racconta un famoso film di Truffaut –, che sia possibile un ritorno indolore dalle profondità della natura. E va detto che questo ritorno forzato, imposto, è estremamente doloroso anche per chi lo infligge, e non ha altra scelta che farlo, come Giorgio Held, il padre adottivo di Nina e Dasha. La ragazza selvaggia è un romanzo situato sul confine del possibile: non racconta una storia fantastica, ma si avvicina al limite di ciò che possiamo narrare nel qui e ora. È anche una storia che narra di famiglie per scelta e non per sangue: al di là del dato biologico, tutti costruiamo una famiglia mentale, un racconto che fa di un nucleo umano ciò che è.
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Per la prima foto, copyright: Mike Wilson.
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