Premio Campiello 2017 – Intervista a Donatella Di Pietrantonio
S’intitola L’Arminuta ed è edito da Einaudi il libro con cui Donatella Di Pietrantonio è entrata nella cinquina del Premio Campiello. È la storia di una giovane che, appena adolescente, subisce un secondo abbandono. Viene infatti restituita dalla famiglia che l’aveva ricevuta in dono a quella che, ancora neonata, aveva deciso di cederla a lontani parenti perché impossibilitata a occuparsene.
Da qui ha inizio il racconto intenso della nuova vita dell’Arminuta, con il suo colpevolizzarsi per questo secondo abbandono e la difficoltà di integrazione nella famiglia che ora è costretta a riprendersela. E proprio da tale difficoltà siamo partiti per la nostra chiacchierata con Donatella Di Pietrantonio.
Arminuta significa “quella che è ritornata”, eppure la storia della sua protagonista è insieme anche la storia di due abbandoni, quello della famiglia d’origine e quello della famiglia adottiva. Quanto può essere traumatico per un’adolescente scoprire di essere stata abbandonata e subire al contempo un nuovo abbandono?
Di sicuro il doppio abbandono ha un peso devastante, in quanto può portare a credere che la responsabilità, o meglio la colpa, non sia di chi abbandona ma di chi è abbandonato. È proprio la reiterazione dell’atto che induce la persona in formazione a ritenersi indegna di amore. L’Arminuta fin dalle prime pagine chiede al padre adottivo che la restituisce alla famiglia biologica qual è il suo errore, la sua colpa, tale da giustificare questa restituzione che è a tutti gli effetti un nuovo abbandono. Probabilmente se lo chiederà per sempre, si domanderà cosa ci sia in lei di così sbagliato da provocare queste separazioni. In genere il bambino – e l’Arminuta è poco più che una bambina – si addossa la colpa piuttosto che distruggere l’immagine ideale dei genitori, perchè questo sarebbe insopportabile.
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Tecnicamente il suo romanzo non racconta una storia di adozione, ma si tratta più che altro di una donazione o di una cessione: una bambina viene ceduta da una famiglia troppo numerosa a un’altra che ha un legame di parentela con la prima. Possiamo provare a contestualizzare questa pratica che a un lettore di oggi potrebbe sembrare almeno strana?
Negli anni ’50 e ’60 questa pratica era abbastanza diffusa nel mio territorio, ma girando l’Italia per le presentazioni ho potuto ascoltare dalla viva voce dei lettori storie simili accadute dappertutto, dal Piemonte alla Puglia. Si trattava di adozioni informali, in genere motivate dall’indigenza di nuclei familiari numerosi che arrivavano a cedere l’ultimo nato a coppie sterili, di solito più o meno strettamente imparentate. Oltre a salvaguardare la propria sopravvivenza le famiglie in difficoltà cercavano di assicurare all’ennesimo figlio un futuro migliore. Contemporaneamente chi adottava poteva soddisfare il proprio desiderio di genitorialità. In mancanza di qualsiasi forma di controllo normativo, gli esiti potevano essere i più vari e dipendevano soprattutto dalla capacità di amare di chi riceveva questi bambini. Nel caso dell’Arminuta l’evento eccezionale è la sua restituzione, dopo tredici anni, alla famiglia biologica di cui ignorava l’esistenza.
Il primo dialogo tra le due sorelle che hanno appena scoperto di essere tali è a mio avviso emblematico:
- Allora la mamma tua qual è?
- Ne ho due. Una è tua madre.
In casi come questi, non è in gioco il concetto stesso di maternità? E chi abbandona non ha forse derogato al suo essere madre oppure questo permane al di là del comportamento concreto?
Non credo sia possible abdicare rispetto alla maternità. È possibile l’abbandono, la separazione fisica ma non una risoluzione del legame su un piano profondo. Persino la madre adottiva dell’Arminuta, responsabile della restituzione alla famiglia che gliel’aveva affidata ancora lattante, cerca di mantenere con lei un rapporto a distanza, basato soprattutto sull’invio di regali e generi di prima necessità. È come se in questo modo lei continuasse a giocare un ruolo materno, basato sul nutrimento e sul sostegno, però a distanza. Così il suo senso di colpa è forse più tollerabile. Ed è questo stesso senso di colpa a dirci che la relazione esiste ancora e chiederà di trovare una nuova collocazione all’interno della nuova vita di questa donna.
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«Ero l'Arminuta, la ritornata. Parlavo un'altra lingua e non sapevo più a chi appartenere». Mi sembra che diventi centrale il senso dell’identità che si costruisce e si riconosce a partire dall’appartenenza a una famiglia. È solo una questione di legami e radici, oppure ci sono anche altri aspetti da considerare?
L’identità è questione complessa in cui entrano in gioco tanti fattori, ma di certo il senso di appartenenza a una famiglia è fondamentale nella costruzione di una consapevolezza del proprio essere nel mondo. È proprio come la radice per l’albero: assicura il sostegno, l’ancoraggio alla terra, e da lì passa il nutrimento. Solo se c’è una radice forte potrà svilupparsi una chioma che guardi verso il cielo. Solo se possediamo la certezza di un’appartenenza possiamo poi tradirla e andare oltre. L’Arminuta perde da un giorno all’altro quelli che credeva i suoi genitori ed è restituita a una famiglia biologica che non conosce, di cui non ha potuto conservare una memoria consapevole. Da qui la sua confusione riguardo all’identità.
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Negli ultimi tempi, si discute molto su come debba intendersi la famiglia e sulla maternità stessa, al centro di dibattiti molto accesi. Penso ad esempio alla questione della surrogazione di maternità. Lei la ritiene un caso particolare e diverso da quello de L’Arminuta oppure può essere accomunata a una più ampia riflessione sull’adozione?
La maternità surrogata non ha nulla a che vedere con la storia dell’Arminuta. Qui si tratta di un’adozione informale tra lontani parenti, senza nessun accordo di tipo economico che preceda la gravidanza della madre “donatrice”. La bambina viene concepita e poi data via in una situazione di grave disagio familiare, di ignoranza delle più elementari pratiche di pianificazione delle nascite. Ma la decisione dei genitori biologici di cederla è successiva alla sua nascita e all’insistenza della donna che desidera prenderla come figlia. Non possiamo in nessun modo parlare di utero in affitto.
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Come si sta preparando per la serata finale del Premio Campiello?
Leggendo i libri degli altri autori finalisti, che ho avuto il piacere di incontrare a Venezia in occasione della presentazione della cinquina. Credo che sarà davvero una bella esperienza questo tour di presentazione dei nostri libri ai lettori.
Leggi tutte le nostre interviste a scrittrici e scrittori.
Per la prima foto, copyright: Ivan Karasev.
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