Premio Campiello 2016 – Intervista alla giurata Chiara Fenoglio
Il Premio Campiello, come quasi tutti i concorsi letterari italiani, ogni anno suscita non poche polemiche, soprattutto all’atto della scelta dei libri finalisti.
Nell’ambito dello speciale, che ormai dal 2013 dedichiamo al Premio Campiello, abbiamo pensato di porre qualche domanda ai diretti responsabili della scelta dei cinque titoli in lizza per il premio finale, per capire quali sono i meccanismi in gioco, quali i criteri che orientano le scelte dei giurati, come si superano eventuali disaccordi e, soprattutto, se a mente fredda c’è qualche ripensamento.
È con questo spirito, dunque, che abbiamo posto qualche domanda a Chiara Fenoglio, alla sua seconda partecipazione nella giuria del Premio Campiello.
L’obiettivo di questa intervista è provare a raccontare un po’ il dietro le quinte del lavoro dei giurati. Come si è preparata a questa attività?
Il Campiello ha una specificità tutta sua che è quella di ricevere un altissimo numero di titoli, dovuti alle scelte delle case editrici, o perché sono gli stessi autori a candidarsi o perché sono gli stessi giurati a segnalare alcuni libri. Sostanzialmente la provenienza è triplice e questo fa sì che il numero di candidati al Campiello sia sempre così alto e che di anno in anno tenda ad aumentare. Pensi che quest’anno siamo arrivati a 230. Evidentemente, orientarsi in un orizzonte così vasto di testi è complicato ed è fondamentale avere dei criteri: il primo di questi è il confronto tra i giurati stessi, che posso affermare è davvero la parte divertente del lavoro di giuria. È un lavoro di dialogo, di confronto, di condivisione, di discussione sui titoli. Un libro entra in discussione quando almeno uno degli undici giurati lo porta all’attenzione dei colleghi e qui si aprono le danze. Una giuria come quella del Campiello, composta da persone che provengono dal mondo della cultura in senso lato e che hanno professionalità diverse, fa sì che ciascuno abbia una sua personale idea della letteratura e abbia dei criteri di scelta personali. Non ci sono, perciò, criteri imposti o condivisi in partenza. Questo fa sì che ci si chieda quale sia lo specifico letterario che una giuria prende in considerazione quando si tratta di arrivare alla valutazione. Anche se, sono sincera, il termine “specifico letterario” non mi piace molto perché riporta alla critica degli anni Settanta, più interessata alla letterarietà che non alla letteratura: possono diventare letteratura libri che in partenza non lo erano, mentre dei libri pubblicati con l’idea di essere altamente letterari, svelano col tempo il loro carattere non letterario. È questo il gioco dell’interpretazione e il gioco della lettura, è quest’ultima che attribuisce valore al libro e non il contrario.
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I suoi criteri quali sono stati?
Se dovessi esplicitare meglio quali sono stati i criteri in questi due anni di Campiello, direi che sono sostanzialmente tre. Il primo è stato valutare la capacità dell’autore di costruire un personaggio memorabile e penso a un romanzo che non è entrato in cinquina, quello di Romana Petri Le serenate del ciclone (Neri Pozza editore): all’interno troviamo un personaggio, che è poi il padre dell’autrice, il cantante lirico Mario Petri, che è un self-made man, che si erge con la forza della sua voce contro il mondo e che lotta alla ricerca del suo proprio destino; il secondo è stato il rapporto con la realtà (che può essere fraintesa o negata, oggetto di satira o di comicità): ad esempio, il romanzo di Elisabetta Rasy (Le regole del fuoco, Rizzoli), che poi è entrato in cinquina, è un romanzo di immaginazione, di fiction, ma che tiene ben presente il rapporto con la realtà, che non dimentica il dibattito del realismo e che cosa sia raccontare una storia vera o verisimile. Infine, il terzo criterio che ho tenuto ben presente è quello dell’impulso critico: sin dalle sue origini settecentesche, il romanzo nasce come meditazione sul romanzo stesso, come ci ricorda continuamente Manzoni. Il confronto tra il mondo e l’alterità dal mondo, che è il romanzo, deve essere qualcosa che l’autore e il lettore devono avere ben presente come faro e come guida: in questo caso si possono fare vari esempi fra i libri che più mi sono piaciuti e che ho avuto occasione di leggere quest’anno, come Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia (Ponte alle Grazie), e Le cose semplici di Luca Doninelli (Bompiani).
Qual è lo stato dell’arte sulla questione della lingua italiana, alla luce dei libri pervenuti al Campiello e della narrativa italiana contemporanea più in generale?
Qui devo dire che la difformità è davvero massima. La percezione più immediata è che il linguaggio medio si sia appiattito, l’impressione è quella di un livellamento e di un avvicinamento al linguaggio della comunicazione quotidiana, dei giovani e in qualche caso al linguaggio dei social e delle e-mail: l’anno scorso, ad esempio, era arrivato un libro dal titolo Le confessioni di uno spammer di Claudio Morici (Edizioni E/O), costruito esattamente come una serie di e-mail di un personaggio che di mestiere faceva lo spammer. E questo è senz’altro un segno dei tempi. Ci sono, per fortuna, però, una serie di romanzi che tentano di riconnettersi a una linea più alta e tradizionale, sia a livello contenutistico che linguistico. In questo senso, cito un romanzo che non è entrato in cinquina, quello di Emanuele Trevi, Il popolo di legno (Einaudi), che è un esperimento molto interessante perché rilegge le avventure di Pinocchio nella Calabria di oggi, riambienta le storie del burattino, reinterpretandole come l’archetipo di un certo tipo di italianità, appunto di legno, un po’ corrotta, un po’ finto-tonta, se vogliamo, che trova nel suo essere di legno una strategia per resistere all’ottusità. Dal punto di vista linguistico, è costruito con una tensione molto forte. Un altro esempio importante, in questo senso, è il libro che ha vinto nella sezione Opera Prima, La teologia del Cinghiale di Gesuino Nemus (Elliot), con inserimenti del dialetto sardo, con creazioni linguistiche estremamente pungenti e accattivanti, come la definizione nelle prime pagine del romanzo «un Buio Sardo»: è un’espressione naturalistica, ma che, se vogliamo, dice molto dell’ambiente in cui ci troviamo con una straordinaria efficacia.
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Tornando al lavoro in giuria, le chiedo se il contributo femminile ha avuto modo di incidere, visto che la giuria vede la prevalenza della componente maschile.
La presenza maschile è nettamente preponderante, quindi se pure si facesse un discorso di scelte di genere, nel quale io comunque non credo tanto, non ci sarebbe modo di far sentire questo tipo di specificità. Detto ciò, devo dire che ho lavorato molto bene con i colleghi giurati e in particolare con Patrizia Sandretto. Ciò che mi è piaciuto di più è il fatto che si sia creato un vero e proprio laboratorio, non una vetrina, e ciò rappresenta proprio la specificità del Campiello, rispetto agli altri premi letterari. È in questa fase che si cerca di capire dove va la letteratura italiana, anche se non si può escludere a priori il fatto che si facciano degli errori. In questa fase dell’anno i giornali si riempiono di polemiche su chi sia entrato in cinquina e chi no, ma questo è anche il bello del gioco ed è il rischio di qualsiasi premio. La sfida è proprio qui, perché il proprio lavoro può orientare il gusto di una generazione, anche se saranno i posteri a decretare il successo o meno di un’opera. Scegliere può essere difficile, a maggior ragione se consideriamo la sproporzione che c’è tra il numero dei libri pubblicati e il numero di quelli letti.
Si sente soddisfatta del lavoro che è stato fatto o ha qualche ripensamento, a mente fredda?
Il lavoro di una giuria ristretta, ma non troppo, come quella del Campiello, dove siamo in undici più il Presidente, è sempre un lavoro di mediazione. Nel work in progress, che dura circa tre o quattro mesi, si arriva a una scrematura, in relazione anche alle scelte degli altri ed è per questo che prima parlavo di laboratorio e di condivisione con i colleghi. Detto questo, personalmente sono un po’ dispiaciuta che non sia entrato in cinquina il romanzo di Romana Petri perché penso che lo meritasse tanto quanto altri. Tra questi, vorrei ricordare anche I memoriali sul caso Schumann di Filippo Tuena (Il Saggiatore), notevole sia per la ripresa operata del genere epistolare, sia per il discorso sul genio che l’autore conduce con grande finezza. Un altro libro cui tenevo molto è stato quello di Caterina Bonvicini (Tutte le donne di, Garzanti) che riprende il tema della sparizione, come il Mattia Pascal, e lo declina al tempo d’oggi, con i social network, i telefoni e le relazioni familiari complicate. È costruito come un giallo, ma con una memoria tradizionale molto forte alle sue spalle. Non li definisco dei veri e propri ripensamenti, piuttosto degli atti mancati.
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C’è qualche episodio, un aneddoto del dietro le quinte che vorrebbe raccontarci? Di solito immaginiamo i giurati immersi nelle votazioni che durano un tempo infinito…
L’ultima riunione è stata, in effetti, una riunione fiume. Forse la cosa più divertente è stato l’incontro notturno successivo alla cena della sera precedente la proclamazione della cinquina: a cena conclusa, prima di ritirarci nelle nostre stanze per riposare, una parte della giuria si è ritrovata di fronte a una tisana rilassante per una chiacchierata in libertà. È stato piacevole perché è stato un momento non ufficiale – ma molto amichevole – in cui ci siamo ritrovati come un gruppo di amici per mettere a confronto le nostre letture e cercare di condividere un mosaico.
Il Premio Campiello è un’istituzione consolidata nel nostro Paese e rappresenta l’imprenditoria che sostiene la cultura. Secondo lei, questo modello dovrebbe essere replicato e seguito maggiormente in Italia come esempio di mecenatismo illuminato?
Si tratta di un caso, se non isolato, quanto meno poco diffuso. Il Campiello, che ha alle sue spalle una tradizione più che cinquantennale, ha il grandissimo merito di avvicinare due mondi che si collocano su opposti fronti, quello letterario e quello industriale-economico, e ha anche il pregio di farlo con una chiarezza e un’onestà davvero encomiabili. È un modello di compartecipazione e di costruzione di un percorso e di un laboratorio – forse mi ripeto, ma è l’immagine che meglio fotografa l’attività svolta – da due punti di vista diversi che nel Campiello magicamente convergono e collaborano. Spesso la letteratura viene presa di mira perché sembrerebbe in mano a scelte di mercato e di marketing, di vendita e non di sostanza: questo concerto che si crea nel Campiello, invece, è davvero eccezionale soprattutto perché c’è il rispetto delle specificità di ognuno, sottolineato dal fatto che la giuria sia differenziata al suo interno.
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