Premio Campiello 2016 – Intervista a Luca Doninelli
Nelle varie interpretazioni di Le cose semplici (Bompiani), sono state fornite varie letture. Personalmente, mi è tornata in mente una poesia di Pasternak, Le onde:
«Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi
e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno,
non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia,
in un’incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più d’ogni cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio tutto ciò che è complesso…».
Le cose semplici, secondo lei, sono una scoperta da tenere segreta o piuttosto la riscoperta di qualcosa che abbiamo smarrito?
Non ho mai pensato che ci fossero, a questo riguardo, segreti da mantenere. È anche vero, d'altra parte, che il soggetto di un'eventuale riscoperta non è mai, quantomeno in prima istanza, un "noi". Un romanziere non è un sociologo e mi pare sia finita l'epoca (che io identifico col Dopoguerra o con l'era post-atomica) del "che ne sarà di noi". Il compito di un romanziere non è quello di offrirci affreschi del mondo più o meno in rovina (questo tra l'altro condannerebbe lo scrittore ad arrivare sempre un po' dopo rispetto agli eventi) ma di cercare di offrire una rappresentazione dell'universo, una cosmologia. Tutto però ha il suo epicentro non tanto in un "noi" quanto in un "io". Le cose semplici non sono un segreto e nemmeno la riscoperta di qualcosa che abbiamo collettivamente smarrito: sono solo qualcosa che ciascuno deve trovare compiendo un cammino personale. Il mio romanzo vuole solo ricordare quanto questo cammino sia fondamentale per giungere alla maturità della vita. E spesso per riuscire nell'impresa (che è semplice ma non facile) è necessario abbattere molto di ciò che ci siamo costruiti interiormente. Almeno per quello che mi riguarda, è così.
«Questo, signore e signori, è il regno delle chiacchiere». Nel testo si cita Leibniz («la somma di tanti rumori impercettibili finisce per produrre un boato spaventoso»), però il regno delle chiacchiere ricorda molto Heidegger e la sua descrizione della vita inautentica, fornita in Essere e tempo, come scadimento dell’esistenza in un mero e neutro «si». Fino a che punto ritiene valido quest’accostamento? E il fatto che per Heidegger questo fosse solo un momento di passaggio, uno dei possibili modi d’essere dell’uomo, autorizza a un barlume di speranza?
Essere e tempo è stato un libro importante per me come per molti, ed è inevitabile, anche per chi non lo ha letto, far riferimento ad esso tutte le volte che si usa la parola "chiacchiera". È come se il vecchio nazista si fosse appropriato di questa parola e non ce la volesse più restituire, e noi dovessimo pagargli una royalty tutte le volte che la usiamo. Quindi l'accostamento non è solo valido ma direi (ahimé) obbligatorio. Io penso che la chiacchiera sia un "momento", sì, ma in senso metastorico. Noi siamo sempre dentro la chiacchiera e sempre possiamo uscirne. Non ci sono ineluttabilità storiche, come nei sistemi idealisti o marxisti, non ci sono magnifiche sorti e progressive. I personaggi stanno nella chiacchiera ma stanno sempre anche fuori di essa. Nel tempo immobile della chiacchiera passano mille vibrazioni, mille inquietudini. La speranza è un dato, non un sentimento. Come dice il prof. Malinverni, perfino le fogne possono ricordarci il cielo stellato: se Dio voleva distruggere il mondo, doveva farlo meglio.
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Nella ricostruzione di Mark, che mette insieme i vari quaderni di suo padre, quest’ultimo avrebbe cominciato a scrivere sia per paura di dimenticare la propria vita sia per tenere vivo l’uso della lingua italiana. Scrivere come forma di resistenza?
Il padre di Mark, che Chantal chiama Dodò e il cui nome non compare nel libro, si mette a scrivere quando scopre che Alda aspetta un figlio da lui. Non è tanto la paura di dimenticare la propria vita, quanto di dover tenere insieme due lembi della vita che sembrano non combaciare più. Quanto alla lingua, parlerei – appunto – della lingua in generale, non tanto di quella italiana. La lingua è quella misteriosa capacità (forse la sola in cui l'uomo dimostra di essere programmato diversamente rispetto agli animali) di comporre frasi, dove le parole subiscono una specie di trasfigurazione. Ma basta avere a che fare, come me, con il mondo del disagio giovanile per assistere a una fuga dalla lingua. La parola si nasconde nei gerghi, talora fisicamente nei sotterranei, nelle cantine (molti rapper di successo nascono nelle cantine). Mi ricorda quello che diceva il pugile Alì a proposito del KO: dice che fu inventato e imposto sindacalmente dai pugili di colore, che non sopportavano di stare a lungo sul ring per la vergogna di essere guardati da tutti quegli uomini bianchi. Stare dentro la lingua è un po' come stare sul ring.
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Finito il mondo, chi resta si raduna in circoli. E a proposito di uno di questi il suo protagonista scrive: «continuo a domandarmi come abbiamo fatto a non ammazzarci tutti a vicenda, in pace». Questa della divisione in circoli vuole essere una critica sociale, oppure ci sono altri elementi da considerare?
Nessuna critica sociale. Mi pare bello che la gente si stanchi di ammazzarsi, e che lo sterminio finisca non perché vengano meno le cause del contendere, ma semplicemente perché sorge in noi qualcosa che si chiede: ma perché poi? Ricordo che, quando scrivevo quella parte del romanzo, mi veniva spesso da pensare a Socrate, che nel processo fu accusato, tra le altre cose, anche di diserzione. Se ne andò dalla battaglia, è vero, ma non perché fosse vile: se ne andò perché gli sembrava stupido dover morire senza realizzare la sua missione, che era una missione educativa e non militare. Anche qui, l'episodio vale oltre le circostanze storiche. Immagino che in ciascun uomo l'istinto militare possa cedere il passo, magari dopo molte sofferenze, a un istinto più profondo, quello della continuazione dell'umanità attraverso ciò che più caratterizza l'uomo, che non è la violenza ma la conoscenza. «Imparentati a tutto ciò che esiste», dice il verso più bello della poesia di Pasternak che lei ha citato. Gliene sono grato. È stato un sentimento ricorrente, forse il più frequente tra quanti hanno accompagnato la scrittura di questo romanzo.
La parola “apocalisse” ricorre una sola volta nel testo, in esergo, dov’è posta una citazione da San Giovanni, eppure molti critici, a proposito dello scenario descritto nel suo romanzo, hanno parlato di “apocalisse” o di “scenario post-apocalittico”. Quanto si ritrova in queste letture?
Poco. Non ho mai inteso scrivere un libro distopico, anzi, l'esistenza di una letteratura distopica è stata una scoperta posteriore alla stesura del romanzo e, se devo essere sincero, non me ne importa niente. Non leggo queste cose e odio gli scenari apocalittici. Rinvio ancora a Malinverni. Il mio immaginario è stato guidato dalla semplice considerazione che il contratto sociale (quello che ci permette di salire su un autobus, di acquistare un etto di prosciutto o di denunciare la scomparsa di un cagnolino) non è una cosa scontata. In tanti mi hanno detto: "mi sa che stiamo arrivando al tuo scenario". "Oddio, rispondo, spero proprio di no". Resta vero che avverto (e non solo io) un senso di fragilità sociale e politica che, prima di manifestarsi con la sospensione della produzione di energia elettrica o l'abolizione delle compagnie aeree, si rende visibile con una diffusa incertezza sul futuro che nasce anche dalla difficoltà a immaginarlo in una forma diversa da quella alla quale ci siamo abituati.
Restando sempre su questa citazione iniziale, il passaggio si chiude con: «Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore». Cos’abbiamo abbandonato noi, forse senza essercene nemmeno resi conto? E sarà mai possibile recuperarlo?
Dodò si rende conto di star dimenticando Chantal, anche se ne parla continuamente. Se ne ricorda in astratto, ma nel concreto della vita l'ha dimenticata. Questo è il punto: spesso dimentichiamo ciò che pensiamo di amare. Da cosa dipende questo? Non lo so. Forse dal sentimento, antico come il mondo, di qualcosa che unisce i nostri destini. Non voglio fare discorsi religiosi, non parlo di Dio. Parlo piuttosto di certi sogni che faccio spesso: sogno i miei nonni, morti da gran tempo, li abbraccio, li bacio ma con uno strano senso di colpa, come se qualcosa dentro di me dicesse: "Loro sono morti perché non ti sei occupato abbastanza di loro". Non è una colpa personale, almeno così mi sembra, ma una specie di sentimento generale legato alla morte. Un'altra parola sequestrata da Heidegger, e poi sfigurata in mille modi, è "cura". Qui siamo dentro il tema della cura: noi ci prendiamo cura del mondo ma insieme sappiamo che questa cura è incompleta, è mancante, che qualcosa in noi dirà sempre: e mia madre?, e mio figlio?, e il mio amico? La morte apre uno squarcio su questa cura imperfetta, che io sono.
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Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2016?
Non mi sto preparando affatto. La vita è molto complicata, e l'essere dentro la cinquina del Campiello è per me un puro regalo, che voglio conservare così. Il vero successo per me è e resta l'aver potuto scrivere questo libro. Ci ho messo diversi anni, rubando il tempo a un ritmo di vita che non risparmia l'età crescente, l'artrosi e l'asma. In questo frattempo, diversi lutti mi hanno ricordato che il mio contratto è a termine. Poteva succedermi qualunque cosa, invece ci sono riuscito, e l'ho scritto come volevo. Questo è un privilegio enorme, che non posso dimenticare, ed è anche tutta la preparazione di cui sono capace per la serata finale del Campiello: non dimenticarmi della mia fortuna e non esagerare con i miei meriti.
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