Premio Campiello 2015 – Intervista ad Antonio Scurati
Il tempo migliore della nostra vita (edito da Bompiani) ha un inizio molto particolare: «Leone Ginzburg dice no l’otto gennaio del millenovecentotrentaquattro». È lecito pensare a questa scelta come alla volontà di ribadire che la narrazione può partire anche da una frattura, una cesura, rispetto al sentiero principale lungo il quale sembra muoversi la Storia? Insomma, un “no” che sancisce, in realtà, l’apertura a nuove possibilità, altrimenti impensabili?
Sì, qualcosa del genere. Sono tra coloro i quali ritengono che noi si viva imprigionati in un “presente assoluto”, orfani della possibilità di ascrivere le nostre singole esistenze a un orizzonte storico. Comincio a narrare la vita straordinaria di Leone Ginzburg dal momento in cui, giovanissimo, rassegna le dimissioni dall’università rifiutandosi di giurare fedeltà al fascismo perché credo che la forza per un atto del genere possa averla trovata soltanto in un sentimento largo del tempo, entrando in risonanza con un passato di cui voleva custodire l’eredità ma anche, e soprattutto, con un futuro, magari remoto, e ancora increato. Altrimenti sarebbe stato impossibile per lui dire apertamente “no” al Fascismo perché in quel momento del 1934 all’orizzonte del presente sembrava non esserci altro che il Fascismo.
Lei ha parole molto dure per quanti, a differenza di Leone Ginzburg, dissero sì, giurando fedeltà «al Re, ai suoi reali successori e al Regime Fascista». Una condanna senza se e senza ma?
A condannarli non sono io ma la storia. Ciò detto, il mio libro è scritto interamente nella consapevolezza che, nella stragrande maggioranza dei casi, se ci fossimo trovati al loro posto noi probabilmente – probabilità statistica – saremmo stati tra quelli che piegarono la testa. La grandezza d’animo è rara, in ogni epoca. Tutto il resto è vita. Il comprenderlo non ci esime né dall’ammirazione per chi è capace di quella grandezza né dal biasimo per chi cade nella meschinità, come fece buona parte dell’accademia italiana sotto – è proprio il caso di dirlo – il fascismo.
Al no di Leone Ginzburg, sempre nelle prime pagine del libro, fa da contraltare una frase di Mussolini («L’antifascismo è finito. I suoi conati sono individuali e sempre più sporadici»). Possiamo considerare il suo libro come il tentativo di esprimere la forza di quei conati, mostrando come più che un rantolo di morte si trattasse, in realtà, del grido di un nuovo inizio?
Quando Benito Mussolini pronuncia quella frase, ha fattualmente ragione. L’antifascismo militante è stato quasi del tutto sgominato e il fascismo è trionfante. C’è un vastissimo antifascismo che si potrebbe definire “antropologico”: milioni d’italiani che “resistono” con dignità all’oppressione della dittatura nel significato basilare di “mantenersi in vita”, non certo di opporsi apertamente ma è privo di consapevolezza ideologica e di sostanza politica. Ma il fatto di poter leggere un nuovo inizio in quei rari, superstiti atti di antifascismo militante è possibile per noi solo a posteriori. In quel momento, mentre Ginzburg dice “no”, l’esito del processo storico non è affatto predeterminato. La storia è sempre la lotta per la storia.
Una parte del giuramento prevedeva l’impegno per i professori di «adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista». Il lavoro di Leone Ginzburg in ambito culturale (inclusa la fondazione di Einaudi) può essere letti come il perpetuarsi del suo no a quell’obiettivo del fascismo?
Certo. Per uomini come Leone Ginzburg l’antifascismo è innanzitutto il frutto di una sensibilità culturale, finanche di un gusto estetico. Culturale, morale e politica sono una cosa sola. Ma Ginzburg è una figura radiosa proprio perché questa integrità è rara. A noi piace pensare socraticamente che la cultura, il sapere, la conoscenza rendano anche uomini migliori nel senso di uomini più giusti, perfino più buoni. Eppure non è così. A testimoniarlo ci sono migliaia di casi di grandi artisti, scrittori o intellettuali che furono uomini orribili. Ginzburg, però, è uno di quei rari casi che alimenta in noi l’idea di una acculturazione come civilizzazione. La speranza che fare buoni libri possa significare anche fare buoni uomini, contribuire a una “buona vita”.
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Il suo racconto di Leone Ginzburg colpisce perché profila una figura eroica senza azioni eroiche («senza clangori romantici»), ma con atti perpetuati nella propria quotidianità, con rigore morale e intellettuale. E questo traspare anche dalle scelte stilistiche da lei adottate, orientate alla “misura”, senza mai cadere nella facile epicizzazione. Un modo per raccontare la Resistenza colta nella sua quotidianità, “liberandola” da quel senso di eroismo di cui solitamente è ammantata e che finisce con il renderla più distante?
La Resistenza è distante da noi. La separa da noi una distanza di valore, non solo temporale, una distanza incolmabile. La grandezza epica appartiene solo al passato, come insegnava Bachtin. Io inseguo l’epica nei miei romanzi fin dai miei esordi ma lo faccio nella consapevolezza che l’epica è negata al tempo presente, che l’epopea è desiderabile solo a condizione di non farne parte. Anche per questo ho scelto di narrare la vita, le opere e le “gesta” di un eroe della Resistenza civile, di un uomo che non abbandonò mai la sua “postazione di combattimento” ma senza mai imbracciare un’arma in tutta la sua vita.
Da un lato la famiglia Ginzburg, dall’altro quella dei suoi nonni materni e paterni, e anche in questo caso non si raccontano atti immediatamente percepibili come eroici. Perché la volontà di raccontare l’aspetto più ordinario della Resistenza?
I miei nonni non furono per niente eroici, in nessun senso e in nessun modo. La loro storia è quella di persone comuni, dignitosi, probi, votati alla sopravvivenza propria e dei propri cari, al lavoro onesto e ben fatto, in un’epoca terribile, dediti agli affetti domestici e alla cura dei figli sotto le bombe ma null’altro. Mi sono permesso e ho trovato sensato narrare le loro vite accanto a quella di Leone Ginzburg perché ai miei occhi in lui il “padre della Patria” è sempre apparso inscindibile dal padre di famiglia. Le grandi virtù di cui Ginzburg fu capace furono solo sue e di pochi altri, ma sul terreno delle “piccole virtù” del quotidiano credo s’incontri con milioni di altri, tra i quali figurano anche i miei nonni. Favorire letterariamente questo “incontro” mi sembra un modo per ricongiungere “grande” Storia e piccole storie e anche un modo di rendere giustizia “poetica” alla verità di quelle esistenze tanto distanti raccontando il loro unico punto di contatto.
Il tempo migliore della nostra vita è un’espressione di Natalia Ginzburg, che la userà subito dopo la morte di Leone, per indicare gli anni del confino in Abruzzo. Quanto prevale la consapevolezza della dignità di una vita non piegata?
Riprendo nel titolo quell’espressione di Natalia Ginzburg, allargandola a un ipotetico “noi”, per far percepire la differenza abissale tra la condizione di chi visse e patì quell’epoca tragica e la nostra, cui è toccato la sorte di vivere in un’epoca privilegiata sotto moltissimi aspetti ma che ha smarrito il senso della storia. E non mi riferisco qui alla semplice conoscenza della storia ma a quel sentimento del tempo che ci consente di percepirci come parte di un racconto più grande del nostro mero e particolare presente, di una vita che viene da lontano e che, attraversandoci per un istante, ci lascia indietro e va lontano.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015?
Medito sui dieci anni che sono trascorsi da quando salii sul quel palco nel 2005. Mi chiedo se sia poi riuscito a combinare qualcosa di buono…
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