Premio Campiello 2015 – Intervista a Vittorio Giacopini
Intervista a cura di Sara Minervini e Gerardo Perrotta.
Così vicine eppure così lontane: ecco come si rivelano la Storia e la geografia ne La mappa di Vittorio Giacopini, tra i cinque finalisti del Premio Campiello 2015. E rivelandosi si dissolvono, smascherando l’inganno che ciascuna perpetua nei confronti dell’altra e del mondo. Tutto è percezione, il vissuto è uno stato, un’occasione, un pretesto strettamente influenzato da un fitto sistema di variabili psicologiche, materiali, sociali, individuali, all’interno delle quali la Storia scritta e la geografia descritta (o descrittiva) ricoprono un ruolo marginale, come la realtà e la finzione all’interno di un romanzo ché sovrapponendosi si elidono e tutto è consegnato all’interpretazione del singolo lettore. Ed ecco che ciò che per definizione dovrebbe essere universale e plurale si riduce all’esplorazione dell’oggetto, sempre e comunque parziale, da parte del soggetto-uomo.
Non a caso, Serge Victor, il protagonista di questo romanzo, è un cartografo al seguito di Napoleone, lo stesso Napoleone che voleva ridisegnare i confini dell’Europa mentre Serge vuole tracciare, delineare, riprodurre attraverso un disegno peculiare, quale quello cartografico, la forma di quella nuova realtà. Entrambi falliscono: è dunque la realtà a fallire? Quella realtà che l’illuminismo aveva pensato di assoggettare attraverso il trionfo della ragione? A queste e ad altre domande ha risposto l’autore in questa nostra intervista.
Qual è il vero protagonista de La mappa (edito da il Saggiatore)? L’illuminista Serge Victor, la storia priva di disegno razionale, Napoleone, il sogno di concretizzare l’ordine perfetto disegnato nella mappa?
La domanda è giustissima, e sorprendente. Ma è vero: fuori da uno schema romanzesco lineare, ne La mappa ho cercato di lavorare su un intreccio di piani e di ordini di questioni, e di passioni. In questo libro, ma credo in tutta la mia narrativa, la parola chiave è “attorno”. Ciò che sta attorno ai singoli, l’interdipendenza delle vicende individuali, il rapporto tra individuo e società, tra individuo e paesaggio, e il gioco di specchi tra illusioni, idee, motivazioni, lo scarto tra ciò che si programma e ciò che succede. Così, Serge è protagonista nei termini in cui è attraversato dal mondo, e dalla storia. Il libro si può leggere su diversi livelli ma senz’altro un piano essenziale è quello del progressivo fallire della visione illuministica e cartografica di Serge, di questo suo sogno di dare ordine alle cose del mondo, all’orizzonte. Una visione – la sua – che la storia si incarica di smentire. D’altra parte è anche vero che la storia-Napoleone, l’histoire-bataille, o insomma quell’idea tutta hegeliana di una storia razionale, con un senso, un piano, una direzione, fallisce lei stessa. Nel romanzo, e – credo – nella realtà. Così la vicenda di Serge è anche una controstoria, o una sotto-storia. Forse potremmo dire che il vero protagonista del romanzo è quello che un grande saggista come Nicola Chiaromonte, parlando di Tolstoj, ha definito “il paradosso della storia”. Ma La mappa è un romanzo e in quanto tale vive di ambiguità, inganni, abbagli, di una certa dose di impostura, e – naturalmente – di sorprese, imprevisti, colpi di scena.
Alla figura di Serge sembra contrapporsi quella dell’amata Zoraide, Maga e artista di strada, zingara in continuo movimento. L’eterno rapporto tra l’ordine e il caos, tra la ragione e l’irrazionale?
Il tema del passaggio da un ordine, da una spiegazione del mondo a un altro ordine (o disordine) e a un’altra, o meglio, ad altre spiegazioni, è fondamentale. Ma non è questione di contrapposizione tra razionale e irrazionale. Serge, Zoraide, l’emaciato poeta, il pretesco Saliceti, i fratelli Korbes e, suvvia, lo stesso Napoleone, hanno il discutibile privilegio di vivere su un crinale del tempo, e in un passaggio. Anche storicamente siamo in quel luogo dei tempi che vede il razionalismo illuminista cedere campo alle ombre, alle passioni, alle speranze e alle fole e alle fiabe del romanticismo. Zoraide – oltre a essere oggetto del desiderio, e donna amata – è per Serge l’incidente, il felice incidente che per primo non tanto contraddice quanto relativizza il suo rigoroso sistema di pensiero. Lui, abituato a guardare tutto come “se si fosse per aria”, è invischiato, radicato, in altri strati di sogno e di pensiero. Ma anche qui, quel che conta è il contesto, quanto sta attorno. Nell’amore tra Serge e la Maga c’è la passione ma anche una fissità da minuetto settecentesco. La loro “passione” la tratto con ironia, per così dire. Saranno altri i soggetti che poi faranno deflagrare il sistema di pensiero cartografico di Serge. La violenza della Storia, la politica, Napoleone, e l’altra ragione incarnata dai fratelli Korbes (ovvia caricatura dei Grimm). Ma non è irrazionale: è un’altra ragione. Siamo, lo ripeto, in piena dialettica dell’illuminismo. E i Korbes confutano la freddezza illuministica di Serge tanto quanto la hybris politica e storica di Napoleone. Tutto è fiaba, dicono, anche la storia è fiaba, tutto – ogni cosa che accade – è una “filastrocca di bugie”. Naturalmente, come pensa Serge, “sono pazzi”. Ma pazzi… a metà. D’altronde la narrativa ha questo vantaggio: può molto onestamente riconoscere legittimità sia alle percezioni ordinarie che alle allucinazioni. È il suo bello.
Secondo alcuni critici, con La mappa lei avrebbe sancito la sconfitta del romanzo storico nella sua impossibilità a raccontare il reale. È d’accordo con questa posizione? E in quale misura?
Mettiamola più semplicemente: La mappa è un romanzo sul tema – e sui paradossi – della Storia; non è, e non vuole essere, un romanzo storico. La grande storia universale che Serge si trova prima a vivere con entusiasmo e poi a subire nel corso del romanzo finisce per essere destrutturata, rivela le sue ambiguità, le infinite doppiezze, i suoi chiaroscuri e non a caso, verso la fine, io mi impegno a far saltare le apparenze: la vicenda napoleonica diventa un “gioco dell’oca”, la grande battaglia di Waterloo è solo la messa in scena di un “Panorama”, la storia naturale – coi sui tempi fermi e lenti, immemorabili – mette in secondo piano i trattati, gli accordi, le guerre, le battaglie. Ma insomma, non si tratta di “impossibilità a raccontare il reale del romanzo storico”; la questione è che ogni romanzo deve affrontare la storia, e questo sia che parli di oggi sia che parli di ieri o dell’altro ieri. Il romanziere – per usare una formula – è una sorta di “storico degli atti mancati”: racconta quanto è accaduto ma anche, e soprattutto, illumina quegli istanti in cui la storia, la vita associata, le nostre vite, avrebbero potuto prendere una strada diversa e non l’hanno presa. E, come diceva Benjamin: «l’istante è tutto», anche se parliamo di istanti impossibili…. Insomma, La mappa più che un romanzo storico vuole essere un requiem per il romanzo storico perché il suo tema più forte sono i diversi codici di fallimento di varie forme di razionalità (storica, cartografica, politica, persino poetica, volendo).
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Colpisce molto lo stile, con un linguaggio ricercato e raffinato, per il quale ha dichiarato di essersi ispirato ai quattro volumi del Dizionario di Tommaseo, sebbene questo sia successivo alla vicenda narrata. Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a questa scelta linguistica e a supportarla tramite un anacronismo?
Lo stile, la lingua, restano la questione delle questioni. Più uno inventa più uno ha la responsabilità di usare e creare un linguaggio che in sé sia in grado di dare una forma diversa al mondo. A quello vero come a quello soltanto sognato, o immaginato. In altri libri che ho scritto – un paio di cose sul Jazz, per dire – questo tipo di lavoro stilistico era affidato sostanzialmente al ritmo della prosa, ai tempi, alla musicalità. In questo caso si trattava di trovare una lingua che costruisse distanza, che imponesse “estraniamento” ma evitando, evitando a tutti i costi il “manierismo”. In qualche modo il mio compito era immaginare una vicenda e provare a dirla con una voce che sabotasse sistematicamente il linguaggio che mi veniva naturale. Ma questo senza nessun mimetismo verso una fantomatica lingua dell’epoca. Ovvio, nel libro ci sono passi dove, per esempio, l’emaciato poeta parla con la voce di Foscolo (e Zoraide con quella di Leopardi) ma il “gioco linguistico” da imbastire era più complesso e lo scarto temporale tra l’epoca dei fatti e il più tardo Dizionario di Tommaseo poteva servire. D’altra parte, del resto, nel libro tutto la terminologia tecnica legata alla cartografia è invece precedente, perché era una terminologia già codificata, già definita. La Lingua della Mappa (e un po’ tutto in questo libro) nasce da un intreccio di piani, e di livelli. Ma è così che, credo, si debba lavorare. Mettiamola così: perché dovrei infliggere storie inventate da me alla gente? Penso che la legittimità di uno scrittore che spaccia le sue personali fantasie sia creata dalla sua capacità di creare una “lingua”. Insomma, lo stile è tutto e non da un punto di vista estetico. Fosse solo estetica, sarebbe, temo, manierismo. Questo tema della lingua lo sento in modo esasperato adesso che sto scrivendo una storia tutta al presente. L’idea è raccontare Roma tra gli anni Settanta e il presente: il rischio di scadere nelle memorie preconfezioniate, nel wikipedismo, nel linguaggio giornalistico è enorme. Così, paradossalmente, il massimo di sforzo e invenzione linguistica devono essere messi in campo proprio quando si parla dell’oggi. Il passato crea distanza anche grazie al diaframma del tempo. Il presente è un campo minato che va “detto” con un’altra lingua. È faticoso e anche molto divertente. Cerco di scrivere un romanzo su Roma e sulla scrivania ho manuali di ornitologia, ritagli del Messaggero, dell’Unità, la Divina Commedia, l’Ulisse di Joyce, Gadda, i risultati delle corse dei cani al Cinodromo negli anni Ottanta, il Manuale di Unabomber, un dizionario di romanesco e naturalmente – ancora – il Tommaseo! La letteratura è una diavoleria.
In occasione dell’uscita dell’altro suo romanzo, Nello specchio di Cagliostro, lei ha affermato che «gli scrittori di professione mi fanno pena: devono andare in giro, presentare, promuoversi su Twitter», riferendosi forse al fatto che la professione dello scrittore oggi sembra appiattita su unico fine: vendere. Ma è ancora possibile, data l’attuale configurazione del mercato editoriale, scrivere senza preoccuparsi anche di vendere?
No, figuriamoci. Era una battuta e vendere o non vendere non c’entra nulla. Data la situazione del mercato editoriale, anzi, credo proprio che una certa editoria debba provare a vendere di più. La sopravvivenza di un’editoria davvero indipendente è fondamentale per il nostro ecosistema mentale e, anzi, la cinquina del Campiello è straordinaria in questo senso, è davvero un segnale importante. In quell’intervista non mi riferivo al fine, in sé neutro, di vendere, quanto a un certo “spettacolarizzarsi” della figura dello scrittore. Non sarà un caso se ormai scrivono cantanti, personaggi tv, eccetera eccetera. Io credo che il compito di uno scrittore sia inventare mondi, dire mondi, contestare mondi. Questo, non altro. Anni fa ho scritto un romanzo sullo scrittore-fantasma per eccellenza, B. Traven: milioni di copie vendute e perfetto anonimato… un mix che secondo me ha parecchio da dire, ancora oggi (e più che alla Ferrante penso a un personaggio straordinario come il Von Archimboldi di Bolaño: ecco, il nodo è cercare nell’anonimato il segreto della scrittura). Poi, forse di pena per gli scrittori di professione si può anche parlare, ma in un altro senso. Se vivi solo di quel che scrivi sei costretto a tenere ritmi produttivi magari innaturali, o – peggio – a trasformarti in “opinionista” sui giornali. L’opinionismo degli scrittori-grilli-parlanti è uno dei mali di questo tempo, di questo clima, di questa cultura.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015?
Mah? E cosa posso dirle? Mi preparo, non mi preparo. Bè, insomma, faccio le cose che faccio sempre. Ci sarà da andare un po’ in giro e spero sia un’esperienza divertente. E in ogni caso, io adoro Venezia, già il solo fatto di “doverci” andare mi mette una grande e un po’ etilica allegria. Poi, andrà come andrà. Per me, per il Saggiatore, credo che già questa cinquina sia importante. La casa editrice ha iniziato un progetto sulla narrativa italiana da poco tempo ma con grande lucidità (e, aggiungo, intransigenza): riuscire a entrare nella finale di un grande premio, e di un premio “serio” in cui i giochi delle superpotenze editoriali a quanto pare non contano granché, è un ottimo segno. Mi sembra un riconoscimento non tanto a me e al mio romanzo ma al lavoro di chi sta pensando la narrativa al Saggiatore: Giuseppe Genna, Andrea Gentile, Ferruccio Parazzoli, Luca Formenton ma insomma… tutti. La letteratura è un fatto individuale solo durante il tempo in cui uno se ne sta lì al tavolino a scrivere, da solo come un fesso. Poi, se il libro vede la luce, diventa un gioco di squadra e l’autore a quel punto conta relativamente. Conta chi ci ha lavorato su, chi continuano a lavorarci, e – ovvio – contano i lettori, pochi o tanti che siano.
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