Premio Campiello 2015 – Intervista a Marco Balzano
L’ultimo arrivato (edito da Sellerio) tocca un aspetto che sembra essere stato rimosso dalla coscienza collettiva dell’Italia: le migrazioni dei bambini dal Meridione al Nord tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del Novecento. Quanto conta in questo romanzo la necessità della memoria, intesa sia sul piano del ricordo del singolo sia su quello più collettivo del fare i conti con la Storia?
La memoria, in senso letterario, non può mai esaurirsi nel puro ricordo del singolo. Quello che può interessare al lettore è la connessione che in una storia si stabilisce tra memoria individuale e memoria collettiva. Per questo romanzo sono partito da un tema preciso, l’emigrazione infantile, e ho poi cercato di ricreare gli ambienti, la lingua e le dinamiche che scattano in un bambino che sbarca in una metropoli, che in questo caso è Milano, la città dove vivo e che conosco meglio. Su questo scenario storicamente attendibile e dallo sviluppo di un fenomeno storico certamente poco dibattuto ho provato a dare vita al personaggio di Ninetto, che però non è la sintesi né delle parole degli intervistati né, tanto meno, dell’individuo tipo che ha vissuto quell’esperienza. È un personaggio da romanzo, con i suoi limiti, i suoi pregiudizi e con un gusto tutto particolare per la parola.
Le prime pagine del romanzo raccontano della vita di Ninetto (detto Pelleossa) in Sicilia. L’approccio e lo stile di questa parte del racconto hanno subito un po’ il fascino della letteratura verista, pensando ad esempio a Verga e alle sue novelle?
Nel romanzo non c’è l’uso del discorso indiretto libero, né la voce arriva da una comunità giudicante come accade nel più noto Verga verista, che per altro è un autore che ho sempre amato e che rileggo spesso. Non c’è racconto in terza persona e anche l’uso del dialetto è ridotto all’osso: infatti solo cinque o sei parole sopravvivono nella lingua di Ninetto, che mescola cadenze del dialetto di origine con quella milanese (l’articolo davanti ai nomi propri, per esempio). Dunque, non c’è un’applicazione del canone verista. Se però per verismo intendiamo una narrazione che vuole presentare e discutere una realtà storica relativamente recente senza giudicarla dal punto di vista morale, allora un’influenza, per quanto sui generis, mi pare che ci possa essere.
A quasi 60 anni, Ninetto si ritrova a vivere una nuova difficoltà, quella del rientro nel mondo del lavoro. Quanto ha inciso nella connotazione di questa parte del romanzo la situazione dei tanti over 50 che oggi, in pieno periodo di crisi, si ritrovano senza lavoro?
Molto. Ninetto esce dal carcere a 57 anni e non ha più il suo posto di lavoro perché nel frattempo lo stabilimento di Arese dell’Alfa Romeo ha chiuso i battenti. Così prova a rimettersi in pista, ma ovviamente non è facile. E come potrebbe esserlo? Per giunta lui ha in tasca solo la terza media e un’unica esperienza professionale, quella di operaio in catena di montaggio. Rimettersi in gioco è oggettivamente difficile e il passare del tempo e la crisi, va da sé, non aiutano. Però è proprio da questo estenuante tentativo di ricominciare che Ninetto finirà per fare incontri interessanti: si imbatterà a chiedere lavoro a una pizzeria gestita da egiziani e ad aiutare due giovanissimi ragazzi cinesi che lavorano nel bar di fronte casa sua, in piena periferia di Milano. Sarà un modo per problematizzare, seppure in maniera assolutamente soggettiva e parziale, alcuni suoi pregiudizi sugli emigranti.
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Cosa può raccontare Ninetto a un ragazzino del 2015?
Ho presentato questo libro in molte scuole e i ragazzi erano quasi sempre stupiti nell’apprendere che questi fatti e queste vite non appartengono a un passato remoto ma sono ancora una questione della storia recente. Meravigliati nel sapere che uomini come Ninetto sono ancora vivi e vegeti e dunque rappresentanti a pienissimo titolo del nostro presente. Credo che per loro sia stata una scoperta interessante. La velocità della comunicazione e della vita di oggi tendono a dare, ancora più a un adolescente, la falsa illusione che tutto ciò che è diverso da noi sia molto più lontano nel tempo di quanto lo sia effettivamente.
In molte interviste, ha insistito sull’importanza della scuola nella formazione dei giovani. A questo proposito, spero ci perdonerà la domanda un po’ provocatoria: ritiene anche lei, come Paolo Crepet, che una buona dose di responsabilità nel caso Maurantonio sia da attribuire agli insegnanti?
La domanda è in effetti provocatoria. Premetto che non conosco l’opinione di Crepet in merito e dunque non so perché attribuisca responsabilità agli insegnanti. Bisognerebbe conoscere bene i fatti per pronunciarsi su una questione così delicata, e io i fatti non li conosco con quella profondità. Ho solo osservato che molti di quelli che hanno parlato avrebbero potuto stare più zitti e molti di quelli che avrebbero dovuto parlare non lo hanno fatto.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015?
Sono contento di fare questa tournee insieme agli altri finalisti in giro per l’Italia. Quando le parole portano persone mi sento sempre fortunato. L’atteggiamento è sereno – anche se non è la parola che meglio descrive il mio carattere – e senza complessi di inferiorità.
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