Premio Campiello 2015 – Intervista a Carmen Pellegrino
Cade la terra (edito da Giunti) deve il suo titolo ad Autunno di Rainer Maria Rilke, in particolare a «lungo le notti, la terra, pesante, cade, dagli astri, nella solitudine. Tutti. Cadiamo». In che modo “tutti cadiamo”? Come ha rappresentato la caduta nella sua opera?
Più che la caduta mi interessava raccontare la predisposizione di certe cose a cadere, come frutti dagli alberi, il movimento verso il basso, verso la terra. E poi la mano, quella mano che con infinita dolcezza sembra sorreggere tutto questo cadere. Ho in mente una litografia di Escher che mostra una mano enorme che tiene nel palmo un borgo abbandonato (che è poi Pentedattilo, in Calabria).
Il romanzo non è solo la narrazione del disfarsi di Alento, ma anche il racconto di ciò che, nonostante tutto, sopravvive. Il suo può essere considerato un romanzo della speranza?
È un romanzo sulla possibilità: la possibilità di vedere una risorsa nella sottrazione e nella perdita, nelle cose ritenute inutili, in quelle che restano indietro. Chiedere ai muri di parlare, di raccontare le vite e le morti che li hanno attraversati, e così trarre pietà dalle pietre forse è già una speranza.
Alento è un luogo di fantasia, ma richiama Roscigno Vecchia nel Cilento. Come mai ha scelto di ispirarsi proprio a Roscigno Vecchia, tra tutti i luoghi abbandonati che lei di certo conosce e a cui poteva fare riferimento?
Roscigno Vecchia è uno dei primi borghi abbandonati che ho visitato, vicinissimo al paese dove sono nata. E’ particolarmente suggestivo: la metodica pazienza dell’abbandono ha creato inserti di colore intenso, di terra solo un poco smossa. E poi la sua luce, una luce scoppiata, in disfazione anch’essa, sembra acquietare tutte le cose, che ormai si muovono di vita propria.
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Lei è una “abbandonologa” e ha definito «una sorta di premura» quella che prova per i ruderi. Può descriverci qual è lo stato d’animo che sente nel trovarsi per la prima volta in un borgo abbandonato?
Ogni volta mi colpisce la meraviglia delle povere cose, che non attendono nulla e non attestano che se stesse. Stanno lì, tutte sciupate, rotte, talvolta pericolanti. Sono sopravvissute alle guerre, alle peggiori furie della natura, ai terremoti, alle frane. E resistono, come fanno gli scampati.
Così, mi avvicino ai ruderi, li sfioro e provo una specie di gioia, anche tattile: se quelle case resistono, se ce la fanno e tante volte ce la fanno, posso farcela anch’io.
Com'è nata la vocazione per tutto ciò che è antico, decadente, dimenticato? È stata casuale o conseguente a qualche episodio particolare?
Probabilmente l’esser nata in un buco remoto dell’osso del Sud, in condizioni davvero modeste, e l’aver visto con quanta ostinazione certi destini sono confinati nella desolazione, nell’irrilevanza più totale, ha condizionato le mie attitudini. Ma è solo un’ipotesi.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2015?
Con serenità e spirito d’avventura! Ho trovato degli amici negli altri finalisti, insieme ci lasciamo condurre nel giro per l’Italia organizzato dal Campiello. Succede anche di divertirsi senza pensare alla serata conclusiva. Inoltre il mio è un libro d’esordio, sono già contenta di esser entrata in cinquina. Chi poteva immaginarlo.
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