Premio Campiello 2014 – Intervista a Michele Mari
Roderick Duddle, edito da Einaudi, si caratterizza per un uso sapiente dell’ironia nel raccontare una vicenda di grande drammaticità. Ritiene che l’ironia possa, ancora oggi, essere la strada giusta per raccontare il dolore senza scadere nel melodramma?
Nel caso specifico, sentivo che la vicenda di un orfano perseguitato si esponeva al rischio del sentimentalismo: per questo non mi sono accontentato di conformarmi al pur notevole sadismo di Dickens, e ho ripreso i modi e i toni del romanzo settecentesco (Fielding e Sterne su tutti), affidati prevalentemente alle cerimoniose e insieme velenose apostrofi del narratore al lettore. Senza esagerare però, per non innescare una metanarratività che non è mai stata fra i miei interessi.
«Io, io! È meno di niente, io» è una delle frasi con cui, all’inizio del romanzo, si spinge Michele Mari a diventare (o a convincersi di essere) Roderick Duddle. Senza voler parlare della morte dell’io, si può ritenere un gioco di specchi in cui Michele Mari si fa doppiamente personaggio?
Con quel breve preambolo, che insieme alla conclusione forma un’ideale cornice, ho voluto rappresentare letteralmente il “rapimento” dell’esperienza romanzesca. Come quando leggevo da ragazzo, anche come autore mi sono dovuto calare interamente fra i personaggi (anzi lasciarmi trascinare da loro al loro livello), perdendo i miei privilegi e la mia stessa identità. Nel corso della narrazione, però, la violenza subita si rivela un regalo prezioso, tanto che quando Roderick sogna di essere Michele Mari inorridisce e non vuole più tornare indietro (in quella scena è probabile che io abbia inscenato il dispiacere di essere giunto alla conclusione del libro).
Il suo è stato definito un romanzo dickensiano, e Dickens riecheggia fin dalle prime pagine (basti pensare, ad esempio, all’incipit di David Copperfield: «Se io stesso risulterò l’eroe della mia vita, o se questa posizione sarà occupata da qualcun altro, è cosa che dovrà risultare da queste pagine»[1]). Chi è il vero protagonista di Roderick Duddle?
Inizialmente doveva essere lui, Roderick. Dopo qualche decina di pagine, però, ho sentito il bisogno di sdoppiarlo, per disporre al tempo stesso di un suo sostituto e di un suo potenziale avversario: è nato così il personaggio di Michael, con le cui vicende e la cui identità Roderick continuamente si confonde. Ma abbastanza presto è risultato evidente che anche altri personaggi potevano legittimamente ambire al rango di protagonisti: penso in particolare a Jones e a suor Allison (quest’ultima, introdotta come figura marginale, si è ricavata via via uno spazio e un prestigio direttamente proporzionali alla sua intelligenza e alla sua anomalia fisica).
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La sua scrittura è intrisa di amore per la lettura, che, secondo molti, sembra essere diventato meno vigoroso anche tra gli scrittori. Cosa anima questa sua passione per la lettura in generale, e per i classici in particolare?
La letteratura mi ha dato quasi tutto, e scrivere è sempre stato per me un modo per rimanere dentro il mondo fantastico che mi ha esaltato o turbato o commosso o semplicemente distratto quando ero un adolescente. In questo senso sono profondamente convinto che la letteratura nasca dalla letteratura, e che abbia senso (e dia piacere) scrivere certe cose proprio perché altri le hanno scritte prima di noi, fornendoci un formulario magico di nomi, di modi, di ritmi, di fantasmi. Essere tradizionalisti e inattuali, in letteratura, non è segno di conservatorismo: semplicemente, come affermò Stevenson, è una forma di regressione.
Come professore di Letteratura Italiana presso l’Università Statale di Milano ha molte opportunità di confrontarsi con i giovani. Com’è cambiato, nel corso degli anni, l’approccio allo studio della letteratura?
Grazie anche alla sciagurata riforma dell’università, i requisiti richiesti sono sempre più bassi, e dalla scuola secondaria superiore arrivano studenti che hanno un bagaglio di letture sempre più esiguo. Citare Melville o Kafka o Mann come autori che per definizione devono essere stati letti è ormai pressoché impossibile. C’è stato un periodo in cui mi sono illuso di poter ripiegare su citazioni cinematografiche, ma mi sono arreso quando ho scoperto che in aula non c’era nessuno che avesse visto Metropolis o 2001: Odissea nello spazio. Rispondendo alla domanda in modo più tecnico e circostanziato, posso dire che un vizio didattico particolarmente diffuso è l’abuso della narratologia, pseudodisciplina che spesso impedisce un approccio sanamente ingenuo e abbandonato al testo.
Come si sta preparando alla serata finale del Premio Campiello 2014?
Non pensandoci. In quanto uno dei vincitori sono più che appagato: quello che poi avverrà avverrà, sportivamente.
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