Portogallo: l’altro 25 aprile
Esattamente 40 anni fa, all’alba del 25 aprile 1974, Lisbona si svegliò con i carri armati in piazza. Era la Rivoluzione dei garofani. Il Portogallo viveva in dittatura da decenni; anzi, per dirla tutta, una democrazia a suffragio universale, in senso moderno, il Paese non l’aveva mai conosciuta. Tecnicamente, anche quell’operazione era un golpe ordito da soldati stufi della guerra in Africa, a difesa delle colonie. Ma i militari avevano un programma politico di democratizzazione e sviluppo umano che, supportato dall’adesione popolare, fece di quella data la festa di un’altra liberazione, in casuale concomitanza con il nostro 25 aprile.
Casualità accresciuta dal fatto che, poco più di un mese prima, un altro tentativo di rovesciamento del regime era finito male. Il giorno della Liberazione avrebbe potuto essere il 16 marzo, ma non fu. Quel giorno servì solo a produrre l’ultima infornata di detenzioni, nonché a ispirare la stesura di uno dei testi più anomali di José Saramago, L’anno mille993 (1975), libro di versi già sconfinanti nella prosa, carico di immagini surreali e tenebrose distopie politiche. Da noi lo tradusse Domenico Corradini Broussard per l’editrice pisana ETS, proprio nel '93; poi il volume passò al catalogo Einaudi e oggi, a quanto ne so, risulta praticamente introvabile. Ma è solo uno dei titoli in tema con l’aprile lusitano che in Italia meriterebbero di essere letti, riletti e, in qualche caso, ripescati e ristampati.
A cominciare da quelli di José Cardoso Pires (1925-1998). Tradotto da Rita Desti per Feltrinelli, è da tempo fuori catalogo il suo Ballata della spiaggia dei cani (1982), un “pasticciaccio” (per dirla con Antonio Tabucchi) che ritrae una società in pieno disfacimento, quella del fascismo ormai alle spalle, proprio come Gadda, attraverso gli orpelli del giallo, raccontava a posteriori la Roma “questurinizzata” di Luigi Federzoni, il Ministro degli Interni di Mussolini che, fra l’altro, nel primo dopoguerra andò a starsene un po’ tranquillo proprio nel Portogallo di Salazar.
Disponibile nelle librerie italiane è invece Dinosauro eccellentissimo (Vertigo, 2007, trad. di D. Occelli), apologo satirico di grande ferocia, ma forse non l’opera ideale per comprendere appieno tutte le qualità del suo autore, che fra l’altro la scrisse ancora negli anni della dittatura.
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E per capire come cambia la scrittura in Portogallo dagli anni della marcatura stretta dei censori a quelli della democrazia più o meno conturbata, bisognerebbe leggere almeno tre dei volumi della Tetralogia lusitana (l’editore Passigli, purtroppo, non ha mai pubblicato il quarto titolo) di Almeida Faria (1943-), pubblicata in patria nel 1965 (La passione), 1978 (Tagli), 1980 (Lusitania) e 1983 (Cavaliere errante). Il ciclo racconta le vicissitudini di una famiglia patriarcale del Sud latifondista. Si va da una narrativa stilisticamente e tematicamente sorvegliata, carica di echi faulkneriani e di simbolismi religiosi legati alla Pasqua (con i figli-agnelli sacrificali e il padre-padrone votato al dispotismo), fino alla presa diretta del terzo volume, che attraverso le risorse del romanzo epistolare offre una cronaca disinvolta dei mesi agitati che seguirono quel 25 aprile, per concludersi addirittura sfiorando, in modo assai prosaico, un tema che in Portogallo sembra non voler passare di moda: l’indebitamento nazionale (già nel ‘77 il FMI era intervenuto a controllare i conti pubblici della democrazia in fasce).
Quasi coetaneo di Almeida Faria è il più noto António Lobo Antunes (1942-). La traduzione italiana più recente di un suo libro è Arcipelago dell’insonnia (Feltrinelli, 2013, trad. di V. Martinetto), un’altra saga familiare che attraversa varie fasi del '900 portoghese. Ma un po’ tutta l'opera dello scrittore nasce dal trauma della sua esperienza come soldato nella guerra coloniale. Esperienza che ritroviamo anche nel romanzo di João de Melo (1949-), Autopsia di un mare di rovine (Cavallo di ferro, 2005, trad. di A. Purgatorio).
L’altra faccia di quella guerra, il processo di decolonizzazione e la pacificazione mancata dei territori (buona parte delle ex-colonie portoghesi continueranno a dissanguarsi in lunghe guerre civili), la racconta invece un bel romanzo di Dulce Maria Cardoso (1964-), uscito in Portogallo un paio d’anni fa e quasi subito tradotto in italiano. Il ritorno (Feltrinelli-Voland, 2013, trad. di D. Petruccioli) narra la storia (o, meglio, le storie) di uno dei tanti gruppi di retornados, gli ex-coloni che dovettero abbandonare l’Africa e rientrare in una “patria” che in molti casi non avevano mai visto, tramutati all’improvviso da padroni in profughi, da potere istituito in emergenza umanitaria. L’autrice scrive calandosi nei panni di un ragazzino quindicenne, ma si sente che pesca nei ricordi personali di chi ha vissuto quella fase storica sulla pelle, regalandoci così uno dei migliori libri recenti su un’epoca lontana, ma non troppo.
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