“Porcelain”, Moby racconta Moby, da dj nei rave party a re della musica elettronica
«Mancavano l'acqua corrente, il bagno e il riscaldamento, ma l'elettricità, ovvero l'unica cosa che mi serviva per fare musica, era gratis. Pisciavo in una bottiglia vuota e, in assenza del bagno, facevo la doccia una volta alla settimana a casa di mia madre o nel dormitorio della mia ragazza. Puzzavo quasi sempre, ma avevo smesso di trovarlo umiliante, perché della mia vita nella fabbrica abbandonata mi entusiasmava tutto».
Fresca di stampa Porcelain, l'autobiografia di Moby (edita da Mondadori nella collana Strade Blu, con traduzione di Michele Piumini), che porta il titolo di una delle sue canzoni simbolo, nonché singolo estratto dall'album che gli ha cambiato la vita: Play.
La storia raccontata nel libro, escluso il breve prologo ambientato nel 1976, si snoda attraverso cinque parti e si concentra su un arco temporale di dieci anni, dal 1989 al 1999. Ma forse tutto comincia proprio in quel lontano giorno del 1976, quando, in un'anonima area parcheggio di Stratford nel Connecticut, il piccolo Richard Melville Hall (pronipote del grande Herman Melville) ascolta per la prima volta il brano dance Love hangover, nel quale Diana Ross sprigiona tutta la sua carica sensuale. Per essere un bambino, il giovane Moby poteva già vantare una cultura musicale di tutto rispetto, fatta di brani rock, soul e disco (perché, come dice lui, «I Led Zeppelin e gli Aerosmith convivevano pacificamente con Donna Summer ed Elton John»), ma in quella canzone vide qualcosa di diverso: il suo futuro. Tuttavia, prima di arrivare al successo, saranno anni durissimi di povertà e stenti, anni avventurosi nei quali un aspirante dj vivrà come squatter in trenta metri quadrati all'interno di una fabbrica abbandonata, in mezzo al rumore di spari e agli spacciatori di crack. Eppure, oltre a un tostapane e a una piastra elettrica per sopravvivere, questo dj ancora sconosciuto possiede già una drum machine, un mixer a quattro tracce e un campionatore.
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I primi passi li muove nei locali di New York («un ventiquattrenne bianco che metteva su dischi hip hop e house in locali neri, latinoamericani e gay»), intanto vive tutte le contraddizioni del suo tempo: atteggiamento punk, dieta vegana a base di avena e porridge, ideali animalisti, una sbronza a sera, attacchi di panico, ma anche una spiccata vocazione religiosa che lo porta a condurre sedute di studi biblici e a provare inibizione nei confronti del sesso. Del resto la New York di fine anni Ottanta ha ben poco della metropoli patinata che si vede nelle commedie romantiche, semmai è un coagulo di siringhe infette, sporco, furti, violenza, omicidi e metropolitane da incubo.
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Mentre Moby coltiva la passione per la fantascienza leggendo autori come Arthur C. Clarke, la sua musica techno è sempre più richiesta nei rave, dove la gente vuole solo divertirsi (certo, come racconta l'autore anche con l'aiuto di ecstasy, ketamina, mdma).
Poi arriva la notorietà quella vera, quella che gli permette di conoscere i Run Dmc, Big Daddy Kane, Miles Davis, Madonna; ma in una vita eccezionale come questa può capitare anche di fare le scuole elementari con Robert Downey Jr., incontrare Viggo Mortensen quando ancora non è una star oppure che la propria ex si metta insieme a un cantante promettente, un certo Jeff Buckley.
Sono gli anni di Twin peaks e di Beverly Hills 90210, sono gli anni in cui un dj come Moby può volare fino in Inghilterra e fare tre performance in tre città diverse durante la stessa notte davanti a diecimila raver sudati.
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Ma la scena rave cambia rapidamente e così Moby deve attraversare un necessario momento di crisi, tra l'altro intrappolato dal contratto della sua etichetta discografica dopo un flop commerciale. Immaginate ora uno dei più brillanti protagonisti della musica elettronica di sempre che tocca il fondo suonando davanti a qualche centinaio di persone (se gli va bene), mentre i Chemical Brothers, Fatboy Slim e i Prodigy riempiono gli stadi. Cosa può succedergli? Come riuscirà a risalire la china? Pensate ora a brani come Natural blues e Why does my heart feel so bad e avrete la risposta.
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Ormai le autobiografie di sportivi, personaggi dello spettacolo, attori e musicisti costituiscono una porzione importante del mercato editoriale, si dovrà ammettere. Altro conto è distinguere tra queste la spazzatura, le operazioni puramente commerciali, i prodotti dignitosi o addirittura i testi che assurgono a opere letterarie. D'altra parte hanno sorpreso e conquistato una vasta popolazione di lettori libri come Open di Andre Agassi ma anche La morte del padre e i successivi volumi che narrano la vita dello scrittore norvegese Karl Ove Knausgård. Insomma, questo è il genere del momento, perfettamente in grado di insidiare i romanzi nelle classifiche. L'autobiografia di Moby rientra appieno nei testi consigliabili, rappresentando il più lucido dei ritratti di un artista contemporaneo, la vita e i suoi connotati, con tutto ciò che comporta essere un genio, i tormenti, sfiorare l'abisso e poi salire fino alle stelle. Scritta da lui stesso senza l'aiuto di un “vero” scrittore o di un giornalista (come precisa l'autore nella prefazione), dunque una vita straordinaria raccontata con parole semplici e uno stile limpido, che rendono Porcelain di Moby non solo un efficacissimo brano musicale ma anche un testo letterario di estrema purezza.
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