“Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento”
La mostra Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento – allestita dal 2 febbraio al 19 maggio 2013 presso il Palazzo del Monte di Pietà di Padova – è una creazione del tutto particolare. Prendendo a prestito le parole che si leggono sul catalogo ufficiale dell’evento, si può ben dire che non si tratta di «una mostra monografica su un artista o un gruppo di artisti, e nemmeno [che essa sia] dedicata a un tema, come il ritratto o il paesaggio... È invece un tentativo di evocare un personaggio e un ambiente che sono stati di centrale importanza per l’elaborazione della cultura europea e italiana». Il personaggio, come si sarà capito, è il cardinale, umanista, scrittore e teorico della lingua Pietro Bembo, e il Rinascimento (sì, proprio quel Rinascimento) è il contesto che lui stesso contribuì a creare.
Per chi è almeno un poco avvezzo a frequentare eventi di questo tipo, quella di allestire una mostra sul Rinascimento italiano senza menzionare nel titolo uno solo tra Raffaello, Tiziano o Michelangelo sembrerà di certo una bella sfida. È quello che ho pensato poco prima di intraprendere il percorso lungo le sale del palazzo, mentre sistemavo al collo l’apparecchio con l’audio-guida sorprendentemente inclusa nel prezzo: una bella sfida nonostante le premesse lusinghiere e l’accattivante battage pubblicitario, che in tutta Padova inneggiava all’imminente ritorno in città di Tiziano (da Washington), Michelangelo (da Londra) e così via, perché, soprattutto di questi tempi in cui il titolo fa molto (se non tutto), quel “Pietro Bembo” sulle locandine mi pareva una scelta coraggiosa; una scelta da ripagare almeno con un po’ di fiducia, e qualche spicciolo per il biglietto.
Così è bastato premere il tasto play sul dispositivo perché la magia avesse inizio, perché cominciassero a scorrere uno dopo l’altro i capolavori di un Rinascimento che non fu solo quadri e grandi pittori. Dall’infanzia di Pietro, ben rappresentata dai due dipinti del fiammingo Memling che furono acquistati dal padre Bernardo a Bruges, si giunge rapidamente a sbirciare tra le sue prime prove poetiche, tra cui il manoscritto degli Asolani, passando per alcuni testi a stampa del Poliziano (con cui intrattenne rapporti di amicizia) e un pregevole Giorgione che raffigura un giovane intento nella lettura di un libriccino verde. Ma è nel complesso delle undici sale che la mostra padovana, curata da Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Adolfo Tura, restituisce un’impressione di completezza e attenzione al dettaglio, ben supportata dalle molte “chicche” che ne dimostrano l’estrema accuratezza filologica.
Esemplare, a questo proposito, la presenza di una sala (la terza) interamente dedicata al mondo della corte, nella quale è possibile ammirare una rara edizione de Il libro del Cortegiano di Baldassare Castiglione (vera e propria “bibbia” del buon frequentatore di corti), alcuni dipinti rappresentativi dell’eleganza e dell’abbigliamento dell’epoca e soprattutto un’autentica lira da braccio, lo strumento con cui i cantori accompagnavano le loro narrazioni. Ma sono forse le sale settima ed ottava – dedicate alla collezione di rarità ed opere d’arte che Pietro Bembo custodiva gelosamente nella sua casa di Padova – a creare meraviglia, sia per la ricchezza di capolavori che per la loro disposizione nello spazio e nel tempo della narrazione.
Quando, dopo circa sessanta minuti di viaggio, la voce del curatore si congeda, verrebbe voglia di premere play ancora una volta, di tornare indietro a quel Rinascimento che non sembra vero possa essere davvero finito. Viene voglia di dire che è un bel posto, l’Italia. Perché non provarci ancora.
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