“Piccola fiaba un po’ da ridere e un po’ da piangere” di Antonio Moresco: la morale dei sogni
Eccomi qui, davanti a Piccola fiaba un po’ da ridere un po’ da piangere di Antonio Moresco (Rrose Sélavy editore, nella collana “Il Quaderno quadrone”): contemplo la copertina, una formidabile illustrazione di Gianluca Folì che raffigura un bambino in pigiama azzurro a stelle gialle che corre verso la Luna; sfoglio piano le pagine, mi soffermo sulla formula magica che la strega Budella pronuncia mentre scioglie la sua polverina nei piatti di purè da servire alla mensa scolastica:
«STRONZETTI STRONZETTI
BECCATEVI QUESTI CONFETTI»
Un po’ rido e un po’ (rim)piango la mia infanzia sperduta nella Terra del Passato, quello spazio a metà tra un giardino e un’arida steppa che come (quasi) tutti ho dovuto attraversare per approdare all’età adulta, e mi domando: chi me l’ha fatto fare? A parte la Natura, si capisce… Perché la morale della favola,se proprio volete saperlo – «ma se non volete saperlo, peggio per voi» – è che scoprirete che l’infanzia è il talento di sognare senza sapere di sognare, quando il sogno è vita, anzi è vitale. E questo articolo potrebbe concludersi qui. Oppure no.
Si potrebbe aggiungere, magari, un accenno alla storia dei bambini della classe della maestra Slurp Slurp: ribellandosi al menù della mensa, provocano le ire funeste della strega Budella che, per dispetto, gli insaporisce il purè con la polvere magica capace di fare innamorare della prima persona che capita di incontrare, in un continuo valzer delle piccole coppie. E siccome l’effetto della polverina è proprio portentoso, l’amore picchia il cuore non solo dei bambini ma anche degli oggetti, facendo strage di sentimenti e affetti non corrisposti anche verso una padella, uno scolapasta, una ciabatta, una supposta, un foruncolo giallo e un foruncolo rosso… Restano immuni solo Sonnambulino e Sonnambulina, che si erano innamorati prima degli intrighi della bidella Budella e delle sue polveri magiche: «una camicia da notte e un pigiamino che si spostavano al di sopra della città addormentata, avvicinandosi sempre più l’uno all’altra finché si ritrovavano sullo stesso tetto». Finché un giorno i genitori di Sonnambulina non decidono di portarla dal dottore per curare quella sua brutta malattia, ché ormai sta diventando grande e non può rimanere sonnambula e continuare «per sempre a scambiare i sogni per la realtà». Basta una punturina per farla guarire e diventare come gli altri bambini, e innamorare di Mortadella perché da guarita la polverina inizia a fare effetto anche su Sonnambulina. E intanto la bidella Budella, che si è stancata di fare la strega ed è anche un po’ fata, con un cambio di parrucca, scioglie l’incantesimo e tutto torna come prima… E Sonnambulino? Lui, nel frattempo, ha sentito la voce della Luna, «la sonnambula del cielo», l’unica che condivida con il bambino l’inappellabile convinzione che «Si può solo credere ai propri sogni e restargli fedeli, sia che li facciamo quando crediamo di dormire sia che li facciamo quando crediamo di essere svegli…».
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E adesso l’articolo potrebbe concludersi qui. Oppure no. Si potrebbe forse aggiungere qualche riflessione sull’eccezionale funambolismo linguistico di Antonio Moresco, che procede giocosamente per accumulazione nominale, sempre capace di mantenere l’efficacia del meccanismo linguistico, un ingranaggio sofisticato e gioioso al tempo stesso.
E certo l’articolo si può finalmente concludere così. Oppure no. Perché dal momento che chi scrive deve anche dimostrare un certo tipo di spessore culturale e già che ci siamo, perché no, pur anche intellettuale, allora si potrebbe buttare giù qualche altra osservazione sull’apparente semplicità dell’architettura narrativa, che in verità è interazione metanarrativa per effetto della quale il (giovane?) lettore è il protagonista implicito della minuta operazione perlocutoria sfoderata dal narratore nell’atto della diegesi. Senza tralasciare che la stessa forma della fiaba impone la presenza di paradigmi strutturali tipici, in virtù dei quali il livello profondo della narrazione costituisce il compimento di una logica, costante e stringente, per cui l’individuo/bambino diventa adulto attraverso una serie di atti tripartiti (ordine-disordine-ritorno all’ordine) che favorisce il passaggio all’età adulta. E tuttavia, non si può non notare come Moresco, da genio par suo, sdoppi il paradigma per rovesciarlo nel suo contrario: per tutti i bambini funziona la successione classica e ormai tipizzata degli eventi (ordine/normalità – disordine/caos dell’infatuazione selvaggia provocato dall’uso della polvere magica – ritorno all’ordine/reversibilità della formula e riappropriazione dello status di partenza); per Sonnambulino, invece, l’archetipo è grazia (il sonnambulismo condiviso con Sonnambulina), caduta in disgrazia (la “guarigione” dell’amica e il reciproco allontanamento), ritorno allo stato di grazia (incontro con la Luna come forma di fedeltà al sogno «più grande e più bello»).
C’è altro? Oh sì! Potremmo discutere della funzione semiotica dell’apparato paratestuale e figurativo di Gianluca Folì; della ripetitività come strumento compositivo più valido e indizio più forte dell’appartenenza a un genere codificato quale la fiaba; della tentazione di recepire un testo al di là della sua interpretazione. Che poi è quanto si è fatto finora.
E davvero stavolta l’articolo si chiude qui. E al massimo ci concediamo di versare una lacrima per Sonnambulino che, come ci ricorda Sandra Petrignani nella sua introduzione «è l’unico a non tradire il suo sogno» in questa Piccola fiaba un po’ da ridere e un po’ da piangere di Antonio Moresco.
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