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Perché un uomo sceglie il suicidio assistito? Intervista a Sergio Ramazzotti

Perché un uomo sceglie il suicidio assistito? Intervista a Sergio RamazzottiÈ da pochi giorni in libreria Su questa pietra. Storia di un uomo che andava a morire (Mondadori), libro nel quale Sergio Ramazzotti, già affermato fotoreporter, racconta di un viaggio in Svizzera insieme a un uomo che desiderava morire.

Un viaggio che ci accompagna in una riflessione intorno al suicidio assistito dal punto di vista del paziente, con pagine cariche di profonda umanità e che invitano a guardare anche dentro noi stessi e a mettere in discussione le nostre posizioni, qualunque esse siano.

 

Vorrei cominciare dal titolo del libro, Su questa pietra, che mi sembra un evidente richiamo alla frase che Gesù rivolse a Pietro («Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»). Perché questa scelta? Qual è la pietra di cui parliamo in questo caso?

Temo sia impossibile scrivere di questo argomento senza incorrere prima o poi nella citazione dalle sacre scritture. Nel caso del libro, inoltre, il protagonista – la cui identità ha un’importanza relativa nel corso della narrazione, benché da un certo punto in avanti sia stato impossibile continuare a celarla – si chiama come l’apostolo a cui Cristo affidò la Chiesa. A proposito di citare, non mi piace farlo con me stesso, ma per rispondere non trovo parole migliori di quelle che ho scritto nel libro, dunque faccio un’eccezione: «…il tuo nome era Pietro e su questa pietra fondo la mia chiesa, il mio piccolo, privato ministero della libertà, dell’autodeterminazione, che non pretende di essere il depositario della verità assoluta, non proclama il dogma della propria infallibilità, non cerca proseliti promettendo la vita eterna e la cui professione di fede comincia con la frase: non fate troppi pettegolezzi».

 

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Il libro appare come il racconto di un viaggio, o meglio di un duplice viaggio. Quello dell’uomo che andava a morire e il suo come “accompagnatore”. In che modo quest’esperienza l’ha segnata e ha cambiato il suo rapporto con la vita e di conseguenza con la morte?

Non credo che fra le molte esperienze vissute a stretto contatto con la morte ce ne sia stata una altrettanto intensa: nessuno dei tanti che ho visto morire desiderava che accadesse. Qui siamo in presenza di un uomo che, invece, bramava la morte con un trasporto quasi sovrumano. Essere a stretto contatto con un tuo simile che sta andando di propria iniziativa verso la morte, e di cui conosci quasi al minuto la durata della vita residua, è del tutto destabilizzante. Tuttavia, riguardo al mio rapporto con la vita e con la morte, non posso dire che l’esperienza abbia minato o sovvertito le mie convinzioni pregresse: casomai le ha rafforzate. Da tempo penso che il nostro rapporto con la morte sia malsano – l’abbiamo relegata nella sfera dell’Innominabile, ne rifiutiamo l’idea come un tabù, non riusciamo più nemmeno a chiamarla col suo vero nome nelle preghiere, alimentando il fenomeno che i sociologi definiscono “pornografia della morte” – e che dunque sia malsano anche quello con la vita. Ma che valore ha quest’ultima se non c’è la morte, come possiamo assaporarla appieno senza scendere a patti con l’idea che prima o poi la morte verrà a portarcela via? L’Ebreo Errante del mito, condannato alla vita eterna, non fa che cercare un modo per porvi fine. Sono convinto che se riuscissimo a recuperare la spontaneità e l’armonia nel nostro rapporto con la morte, potremmo vivere molto meglio. Ne sono convinto per averlo provato sulla mia pelle.

 

Mi permetto una domanda diretta: cos’è il suicidio assistito per lei? Che idea ha maturato grazie alle quarantotto ore trascorse insieme alla persona che ha “accompagnato” in Svizzera?

Intanto è il modo di morire che la maggior parte di noi, credo, vorrebbe per sé: nel sonno. Da un altro punto di vista, è la consolazione che deriva dalla possibilità di scegliere. La possibilità di scegliere è una delle massime espressioni di libertà, ed è fra le prime cose che un regime totalitario sopprime: al popolo non è dato scegliere che libri leggere, cosa mangiare, dove stabilirsi a vivere, che programma guardare in televisione.

Perché un uomo sceglie il suicidio assistito? Intervista a Sergio Ramazzotti

Il libro nasce dalla decisione della sua agenzia di fotogiornalismo di raccontare una serie di storie attraverso le quali affrontare il tema del diritto alla salute, o meglio: di come questo diritto è ben lungi dall’avere un’applicazione universale. Tra queste storie decidete di includere quelle dei «migranti che viaggiavano per mettere fine alle proprie sofferenze, benché avessero optato per la terapia più estrema.» Che legame ha colto tra eutanasia, suicidio assistito e diritto alla salute? In che misura l’impossibilità di ricorrere al suicidio assistito può rappresentare una negazione di tale diritto?

Ho conosciuto soltanto tre persone disperate al punto da arrivare a concepire la morte come la sola via verso la guarigione. Dove per guarigione intendiamo comunemente regressione dei sintomi fino alla scomparsa, o comunque a un livello tale da garantire un’esistenza sopportabile. Una di queste era mia madre, che nelle ultime fasi della sua malattia mi chiese di trovare un modo per aiutarla a morire. In seguito se ne pentì e ritrattò, quasi spaventata da ciò che mi aveva chiesto, affrontando i giorni che le restavano con le terapie palliative. Sono certo che lo fece per una sorta di senso del dovere nei confronti dei suoi cari frutto di una morale cattolica profondamente radicata, ma sono altrettanto certo che quegli ultimi giorni di vita siano stati più consolatori per noi, i suoi familiari, che per se stessa. In altre parole, si sforzò di vivere ancora per procrastinare il più possibile il momento in cui avremmo dovuto confrontarci con la sua scomparsa. All’epoca la richiesta di morire anzitempo, provenendo dalla donna che era mia madre, mi sconcertò: mi pareva impossibile che fosse stata concepita da una persona sorretta da una fede tanto solida. Eppure, se la fece, evidentemente fu perché nemmeno le terapie palliative riuscivano più a garantirle una qualità di vita tale per cui l’istinto di sopravvivenza continuasse a prevalere sul desiderio di farla finita. Mi chiedo: in queste condizioni, dal punto di vista del paziente, che è quello in cui dovremmo sforzarci di calarci, desiderare di porre fine alle proprie sofferenze è un tratto di codardia, uno sfregio alla propria fede, un egoismo sprezzante dei sentimenti altrui o una forma, per quanto radicale, di terapia, e in quanto tale un diritto sancito dalla Dichiarazione universale?

 

Siamo abituati a parlare di suicidio assistito solo quando il gesto di un singolo si trasforma in atto politico pubblico. Vorrei provare con lei a restare in un ambito all’apparenza più ristretto. Quale può essere lo stato d’animo di una persona che prende una decisione come questa e la attua?

Non credo possa esserci una risposta soddisfacente. In quasi trent’anni di lavoro mi è capitato spesso di vedere esseri umani in condizioni incredibilmente degradate – in guerra, nei campi profughi, lungo le rotte dei migranti o sul luogo di un’epidemia o una catastrofe naturale – e caduti nella prostrazione più totale. Persone che avevano perduto tutto, e che spesse volte non potevano trarre la speranza nemmeno dalla prospettiva di un futuro, consolarsi pensando che prima o poi il disastro o la guerra sarebbero finiti e avrebbero potuto ricominciare a costruire. Eppure nessuno dei tanti che ho conosciuto in queste circostanze mi ha mai detto di desiderare la morte. Anzi, quanto maggiore era lo sconforto in cui erano precipitati, tanto più erano aggrappati alla vita. Dunque, sono costretto a rispondere alla domanda con una domanda: che cosa è successo a un uomo che la vita desidera togliersela, con tale lucidità e determinazione? In quali abissi di disperazione deve sprofondare un essere umano per arrivare a una decisione tanto estrema, e comunque mai estrema e traumatica quanto gettarsi dal decimo piano, o sotto un treno in corsa? E questa è una domanda di cui, credo, ciascuno di noi in cuor suo conosce la risposta. Anzi, mi piacerebbe fare un esperimento e girare la domanda ai vostri lettori per leggere il loro punto di vista. Con questo libro mi preme soprattutto stimolare la riflessione, e diffido di chi, in questo campo, enuncia tesi che pretendono di essere assolute, tanto coloro che sono a favore del suicidio assistito quanto i detrattori, o coloro che pretendono di entrare nell’animo delle persone per trarne leggi universali. Su questa pietra è un libro con una quantità di punti di domanda (intesi proprio come segni tipografici) elevatissima. Non ci sono risposte, ci sono solo domande. Alla maggior parte delle quali, benché me le stia facendo ormai da cinque anni, non sono riuscito a dare una risposta soddisfacente nemmeno per me.

 

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Perché un uomo sceglie il suicidio assistito? Intervista a Sergio Ramazzotti

Erika è la donna che ha reso possibile tutto questo e la cui storia è racconta brevemente all’inizio del libro. Si tratta di un’assistente al suicidio. Nel presentare la sua “attività”, lei si chiede: «come avrei potuto dire? Scegliere la carriera? sposare la missione? seguire la vocazione?» Quale di queste componenti prevale secondo lei? E come risponderebbe a chi dietro attività come queste vede solo un modo per fare soldi sulla disperazione altrui?

La missione, che a sua volta non può prescindere da un qualcosa di molto simile a una vocazione. Accompagnare un proprio simile alla morte in certe condizioni può essere definito un atto di compassione (in guerra, quando sei ferito a morte c’è sempre un commilitone pronto ad alleviare la tua pena, e se necessario a mettervi fine. In quelle circostanze, sparare a bruciapelo a un uomo agonizzante non si definisce un vile assassinio, ma un colpo di grazia), ma lo è, ancora una volta, soprattutto dal punto di vista del paziente. Lo è, evidentemente, anche per l’assistente al suicidio, ma il gesto per quest’ultimo non è mai privo di conseguenze psicologiche a lungo termine. Non è molto diverso dal documentare l’orrore con una fotocamera al collo, con l’intento di denunciarlo. Ho conosciuto più di un collega fotogiornalista che si è tolto la vita per il peso delle troppe immagini scattate. Se non credi che in ciò che stai facendo vi sia una valenza missionaria, se non sei spinto da qualcosa che potremmo soltanto definire come vocazione, non puoi reggere a lungo. Certo, è molto possibile che si tratti di un’illusione consolatoria, di un’autoassoluzione, eppure… eppure ora che ne scrivo vedo un parallelismo fra il mestiere di fotogiornalista e quello dell’assistente al suicidio, perché in fondo chi svolge questi lavori con la dovuta onestà intellettuale non pensa al tornaconto economico. Potrei citare molti colleghi uccisi o gravemente feriti sul campo, che erano a documentare un conflitto senza un contratto, senza alcuna garanzia economica né copertura assicurativa, semplicemente per l’impulso che li aveva spinti a fare ancora una volta ciò che ritenevano giusto e doveroso. Nel caso degli assistenti al suicidio in Svizzera, non si tratta nemmeno di impulso: semplicemente, la legge elvetica impedisce loro di guadagnare con questa attività. O perlomeno, lo impedisce a coloro che la rispettano.

 

Se un suo caro dovesse trovarsi nelle stesse condizioni dell’uomo che andava a morire e le proponesse di accompagnarlo, cosa gli direbbe?

Non ne ho la più pallida idea. Però so che se fossi svizzero, accettando non rischierei la galera.


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