Perché si festeggia la festa delle donne?
Perché si festeggia la festa delle donne? È importante chiederselo proprio oggi. Già, a livello sociale e politico cambia sempre poco, o nulla, ma ogni anno resta la ricorrenza, e si ripresenta il quesito sull'importanza di continuare a dedicare una giornata alle donne. Ha senso continuare a celebrarla in Italia, ad esempio, dove si fa un gran parlare di parità dei sessi, dove ci si indigna per i grandi casi di cronaca che vedono vittime le donne, ma dove continuano a esserci ragazze che “perdono” il lavoro perché rimangono incinte, vittime di stalking costrette a vivere nella paura perché lo stalker viene comunque tutelato più di loro, mogli che stringono i denti di fronte a un marito violento perché un certo modello di educazione famigliare così impone loro di fare. Chiunque di noi avrà sicuramente casi analoghi, o peggiori, nella propria cerchia di conoscenze.
Così, se sulla condizione femminile di passi avanti, in Italia, se ne sono fatti molti, per molte altre ragioni è doveroso continuare a parlarne. Fino a qualche decina di anni fa, anche in Italia, le donne neppure votavano (lo fanno dal 1946) e, nel privato, nella migliore delle ipotesi dovevano ridursi al ruolo di angelo del focolare, ora qualcosa di diverso c'è. Ora votano e sono votate (seppur molte solo grazie a quelle “quote rosa” figlie di un becero cattocomunismo duro a morire), fanno carriera, ricoprono cariche importanti, sia nel privato che nel pubblico, coltivano passioni nel tempo libero (e nessuno si scandalizza se non si limitano a lavare, rammendare e stirare, come un tempo avveniva).
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Casi come quelli elencati più sopra (spesso legati all'ambiente lavorativo, tallone d'Achille italiano per moltissimi aspetti), e quanto accade in molte altre zone del mondo impongono di non abbassare la guardia e continuare a proporre buona informazione, idee e progetti.
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Perché non devono più accadere al mondo casi come quello di Phulmani, giovane schiava indiana dell'utero in affitto, costretta a portare a termine, sin da quando aveva 13 anni, in totale sei gravidanze di altrettante coppie (d'accordo con l'organizzazione malavitosa) le quali, dopo sei mesi di allattamento al seno da parte della ragazza, ora 31enne, finivano per prendersi i bambini senza dare a lei la possibilità di rivederli.
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Non devono più accadere casi come quelli delle bambine infibulate nel corso di riti tribali che non soltanto derivano da un’antica quanto barbara concezione maschilista del mondo, ma vengono praticati senza alcuna attenzione all'igiene, con il rischio, concreto, che le già terribili sofferenze delle piccole si acuiscano nei giorni successivi al “rito” a causa di infezioni batteriche che ne provocano in molti casi la morte. Pare impossibile ma anche in Italia si stima che ci siano ogni anno circa 8mila bambine sottoposte a questa pratica.
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Non devono più accadere casi come quello di Shafilea, soffocata a 17 anni dai suoi stessi genitori con un sacchetto di plastica perché si opponeva al matrimonio combinato dalla sua famiglia con un uomo che non conosceva.
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Non deve più accadere quanto accaduto in Sudan, dove la polizia ha inflitto 50 frustate sulla pubblica piazza a una giovane rea di aver indossato abiti ritenuti indecenti. Secondo alcune fonti la ragazza aveva osato girare in minigonna, ma altri sostengono che indossava soltanto dei pantaloni.
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Non deve più accadere quanto accaduto a Lucia, sfregiata con l'acido da due uomini pagati dal suo ex fidanzato, omuncolo incapace di rassegnarsi di fronte alla separazione, che ha perseguitato la donna per mesi prima di decidere, dato che lei non era disposa a ritornare, di punirla con l'acido distruggendole la vita (e quanti casi come questo sono finiti invece in tragedia facendo scoprire ai giornali il termine femminicidio, il "primo" dei quali fu messo in scena proprio in un teatro italiano?).
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Non deve più accadere quanto è successo a Marte, 24enne norvegese che lavorava in Qatar, assurdamente condannata a 16 mesi di carcere per rapporti al di fuori dal matrimonio e spergiuro, per aver denunciato alla polizia di Dubai lo stupro subito da un collega di lavoro. La ragazza ha ricevuto la grazia qualche mese dopo, su interessamento del suo Paese, ma poco importa, visto che non tutte le donne hanno la sua stessa capacità mediatica. In molti Paesi, poi, come l'India, ad esempio, lo stupro è una piaga sociale ancora spesso ritenuta non affatto grave proprio da amministratori e polizia.
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Non dovrebbero mai più capitare casi come quello delle giovani del collettivo Pussy Riot incarcerate in Russia dopo una (discutibile) esibizione all'interno di una cattedrale ortodossa, e accusate, tra l’altro, di comportamento lesivo nei confronti di tradizioni nazionali millenarie. Nadia e Maria, entrambe madri di figli piccoli, hanno subito per mesi le durissime condizioni delle prigioni russe, prima di essere liberare nel 2013 anche per merito del continuo interesse dei fan e dell'opinione pubblica.
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Tante situazioni diverse, e la carrellata potrebbe continuare per molte e molte storie ancora. Preferiamo fermarci qui, ritenendo più utile chiudere con un titolo interessante, sicuramente più utile a onorare la ricorrenza dedicata alle donne rispetto a un lungo elenco di casi di cronaca. Parliamo del libro che racconta la storia del premio Nobel per la pace del 2014, Malala Yousafzai. Scritto con la giornalista Christina Lamb e pubblicato in Italia da Garzanti, Io sono Malala racconta la storia di questa ragazzina che fin da giovanissima è divenuta l'emblema della lotta per il diritto all'istruzione delle bambine. Perché i tre colpi di pistola, sparati da un talebano che intendeva fermare la voce di Malala (quando aveva appena 12 anni), la dicono lunga su quale sia il nemico più grande di chi vuole imporre la sua legge e la sua violenza al mondo: l'istruzione.
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È così in Pakistan (Paese di Malala) come in Kenya (dove migliaia di bambine subiscono l'infibulazione) e in Italia, per questo informare e istruire sono l'unica via e l'unica risposta alla domanda “perché si festeggia la festa delle donne?”.
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