Perché “Scrivere fa bene”. Intervista a Giada Cipolletta
Scrivere fa bene (Dario Flaccovio Editore, 2020) è un manuale di auto-aiuto scritto da Giada Cipolletta e pubblicato in una collana dedicata alla psicologia. Non si tratta quindi di un testo propedeutico alla scrittura creativa, come qualcuno potrebbe pensare dal titolo, ma di un percorso che vuole invitare a utilizzare la scrittura come mezzo per esprimere i propri pensieri ed emozioni: anche se viviamo in un mondo pieno di parole e se in apparenza ne facciamo un uso sempre più frequente (ad esempio sui social), non è detto che questo nostro uso sia corretto e in grado di esprimere davvero le nostre idee.
Giada Cipolletta, autrice eclettica impegnata su vari fronti della comunicazione, ha scritto un libro che mescola temi scientifici e riflessioni personali, in cui spesso si rivolge confidenzialmente al lettore e non esita a raccontarsi in prima persona. Ne abbiamo parlato con l’autrice in questa intervista.
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Confesso che del suo libro mi ha lasciato un po’ perplessa il continuo cambio di registro: un approccio confidenziale, capitoli da saggio con note e bibliografie, passaggi molto personali… Perché ha fatto questa scelta di mescolanza di generi?
Come ho dichiarato nella premessa, ho voluto che questo libro fosse una coerente rappresentazione di quello che la scrittura è per me. Un veicolo per esprimere la propria natura, lontano dagli schemi, dalle etichette, dalle strategie e dai (pre)giudizi. Una scrittura contemporanea, liquida, senza genere, personale.
Ho voluto riappropriami del mio sentire, in un’epoca nella quale, ancora di più che in passato, si tende a plasmare il nostro modo di comunicare (e noi stessi) per compiacere, assecondare o persuadere gli altri. Ho messo nero su bianco il mio modo di leggere e interpretare – che a qualcuno forse apparirà un po’barocco – e l’ho fatto senza contenitori, lasciando spazio alle contaminazioni. Venti anni fa, un mio caro amico pittore mi definì “Neoclassica fuori e Barocca dentro” e, ancora oggi, le sue parole sono il motto che rappresenta meglio la mia cifra. Perché io sono così, anche fuori dalla carta: una sincretica fusione di sacro e di profano, di emozioni e di razionalità, di ordine e disordine.
Non ho scelto di mescolare i generi, ho scelto la libertà di vivere il rapporto con la scrittura nel modo che mi ha sempre contraddistinto, e l’ho fatto mettendo in pratica quello che, tra l’altro, invito a fare ai lettori nel corso della narrazione.
Non teme in questo modo di disorientare un po’ il pubblico dei lettori?
Sì, se hanno un certo tipo di aspettative, può accadere.
Per questo forse è meglio che chiarisca: questo non è un saggio sulla scrittura o un manuale sulla scrittura creativa, e nemmeno il testo definitivo sul copywriting che aiuta a vendere, con il potere persuasivo delle parole.
Scrivere fa bene è un libro di auto-aiuto che fa parte della collana Binario di Dario Flaccovio editore dedicata alla psicologia, la cui linea editoriale è proprio quella di partire da un’esperienza personale per poi sviluppare la tematica del titolo, anche dal punto di vista scientifico.
Il mio caso personale e la mia sperimentazione concreta, quindi, sono il costante leitmotiv che accompagna una narrazione che si alimenta di solidità scientifica – grazie al supporto di psicologia, neuroscienze e ottimi professionisti – per dimostrare la ragione per cui l’atto di scrivere sia di beneficio.
Ecco il perché del taglio confidenziale, ecco il perché degli esercizi pratici per sperimentare ed esplorarsi, ecco perché la parte “saggistica” è ricca di note per chi avesse voglia di approfondire. Tra le altre cose, osando lo ammetto, ho scelto di inserire in appendice una parte dei miei scritti personali: volevo avvicinarmi ai lettori e dimostrare pragmaticamente che sono la prima a servirmi della scrittura espressiva (senza filtri e senza regole, nei casi specifici riportati) come mezzo terapeutico per sfogare le emozioni represse, per ascoltarmi e accogliermi.
La PNL, o Programmazione Neuro Linguistica, a cui lei fa riferimento in alcuni punti, è una teoria ascientifica molto discussa. In base alla sua esperienza personale pensa che possa essere ancora utile in determinati settori?
Come potrà aver intuito, sono una persona che tende ad avere un punto di vista piuttosto ampio. Credo che la PNL, così come presentata dai suoi fondatori Bandler e Grinder – ben lontana dalle manipolatorie devianze da venditori d’assalto, per capirci – sia un punto di partenza da conoscere e studiare. Se ci si ferma a guardare da un’angolazione, il punto di osservazione è limitato. Sono dell’idea, infatti, che sia utile prendere il buono che c’è nelle varie teorie, cercare di indossarle, personalizzarle o confutarle sulla propria pelle, in base alle proprie esperienze e al proprio contesto emotivo, che è in costante evoluzione. Ad esempio, credo possa essere valido esplorare anche le basi del linguaggio ipnotico o di quello manipolatorio per imparare a discernere e, di conseguenza, agire in modo etico e consapevole.
I social a suo parere hanno migliorato o peggiorato il rapporto delle persone senza particolari ambizioni letterarie con lo strumento della scrittura?
Dire peggiorato è fin troppo ovvio, vero?
La colpa, comunque, non è solo dei social. Non è il mero strumento, ma l’intenzione a monte che dobbiamo prendere in considerazione. Le persone sui social, ma anche fuori dai social, interagiscono sempre più in modo superficiale e frettoloso, con il contesto e con gli altri, guidati dalla riprova sociale e dalle aspettative che coprono di ansia le loro aspirazioni. Per loro raccontare con le immagini è più impattante che farlo attraverso le parole, che storpiano in anglicismi improbabili come “shippare”. L’arte di scrivere va addestrata e allenata, non solo con la pratica costante, ma anche con la lettura. Adesso si legge poco e si scrive in modo frettoloso, vittime di un multitasking deleterio che apre fin troppe finestre sul mondo.
La comunicazione oltre che fast è spesso junk, come il cibo, immagini e suoni servono a calamitare e richiamare l’attenzione distratta, mentre le emoji diventano, in sostituzione delle parole, elaborazione visuale del pensiero. Il paradosso, come scrivo nel libro, è che nonostante suoni e immagini dominino si sta perdendo la capacità di osservare e ascoltare.
Forse proprio perché queste funzioni sono sinesteticamente potenziate dalla scrittura. I ragazzi stanno sviluppando nuove abilità, come il montaggio video, e ne stanno perdendo altre, come quella di tradurre, attraverso la parola scritta, le proprie emozioni. Scrivere per loro è una attività che fa perdere tempo, tanto che preferiscono mandare messaggi vocali anziché digitare.
Scrivere fa bene e le parole sono importanti, eppure mai come in questo periodo sembra che moltissime persone, a cominciare dai politici, abbiano serie difficoltà a farne un uso corretto. A chi attribuire certi flop comunicativi, in un mondo dove in realtà abbondano figure di riferimento a cui affidarsi per affinare le proprie strategie comunicative?
Come dice giustamente, abbiamo tutte le risorse per imparare, acquisire e mettere in pratica strategie comunicative di altissima caratura ma, a mio avviso, non basta. Le nostre parole sono una proiezione fisica dei nostri modelli mentali, la versione tangibile dei nostri pensieri, il modo in cui pensiamo le cose concretizza quello con cui le sentiamo e nominiamo.
La soluzione, forse, è andare alla fonte della comunicazione.
Bisogna lavorare sul pensiero e, dunque, sulla persona. Altrimenti quello che emergerà sarà sempre, sebbene ben infiocchettato, un comunicare incoerente e privo di sostanza.
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Nel suo libro affronta tantissimi temi diversi. C’è qualcosa che le piacerebbe magari approfondire in futuro, o qualcosa di cui pensa di non essersi occupata a sufficienza?
Se avessi seguito la mia indole curiosa, non avrei mai consegnato il libro. Sono troppi, infatti, gli ambiti che avrebbero meritato un approfondimento: le parole in relazione alle singole emozioni, per esempio, le sinestesie o i frame mentali.
Le parole che scegliamo di utilizzare raccontano così tanto di noi, della nostra società, delle nostre esperienze, del nostro stato d’animo, che vale davvero la pena prestarci attenzione.
Come potrebbero cambiare il mondo e le nostre emozioni se iniziassimo a ricostruire il nostro vocabolario?
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Per la prima foto, copyright: Christin Hume su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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