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Perché Russia e America non attaccano l’Isis? Intervista ad Alessandro Orsini

Perché Russia e America non attaccano l’Isis? Intervista ad Alessandro OrsiniPerché tutte le maggiori potenze mondiali pur affermando di combattere il terrorismo islamico non riescono a sconfiggerlo? Qual è la vera forza degli jihadisti? Perché continuano a fare proselitismo in Occidente? Quanto può essere utile la sociologia del terrorismo per comprendere il fenomeno e cercare di arginarlo?

Ne abbiamo parlato con Alessandro Orsini, direttore del Centro per lo Studio del Terrorismo dell'Università Tor Vergata di Roma, Research Affiliate al MIT di Boston, docente di Sociologia del Terrorismo alla Luiss e alla Loyola University di Chicago, editorialista de «Il Messaggero», autore di ISIS. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli, edito da Rizzoli a gennaio di quest'anno.

 

Nel sottotitolo del suo libro lei parla di fortuna ma nel testo afferma che «l'Isis continua a esistere perché è guidato da professionisti del terrore di alto livello». Non si tratta solo di buona sorte, quindi.

Non si tratta soltanto di fortuna. L’ascesa dell’Isis è stata favorita dal fatto che Russia e Stati Uniti si sono paralizzati a vicenda. Putin non vuole inviare i propri soldati a morire per liberare Raqqa perché teme che i ribelli filo-americani corrano a conquistare Damasco. Dal canto suo, Obama non può liberare Raqqa che rimarrebbe sotto il controllo di Bassar al Assad e, quindi, di Putin, che è padrone di Assad. Perché gli americani dovrebbero andare a morire per consegnare un territorio nelle mani dei loro nemici?

Le cause del successo dell’Isis sono numerose. Una delle più importanti è il contesto, ma ciò non toglie che i capi dell’Isis siano professionisti del terrore dotati di una notevole intelligenza politica, anche se tale intelligenza è utilizzata per fare cose mostruose, come la strage di Parigi.

Quando Stati Uniti e Russia affermano che la loro priorità è la lotta contro l’Isis, affermano il falso. Per Putin e Obama, Damasco è molto più importante di Raqqa. Prima di ogni altra cosa, ambiscono a conquistare la Siria.

 

Una delle posizioni di fondo del libro è che l’Isis rappresenti principalmente un problema politico, non militare. Perché?

L’Isis è il nulla, sotto il profilo militare. Lo abbiamo visto, chiaramente, quando sono state riconquistate Tikrit, Sinjar e poi Ramadi. Per ora, l’Isis deve rimanere dov’è. Se Russia e Stati Uniti troveranno un accordo politico per la spartizione della Siria, avvieranno il processo di sterminio dello Stato Islamico. Se non troveranno un accordo, lo Stato Islamico continuerà a vivere. La situazione, purtroppo, è resa ancor più complessa dalle rivalità tra Iran, Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Nel libro, spiego che i responsabili di questo disastro sono numerosi.

Perché Russia e America non attaccano l’Isis? Intervista ad Alessandro Orsini

Soffermandosi sui due blocchi attualmente in essere in Medio Oriente, e cioè Russia-Iran e Stati-Uniti-Arabia Saudita, lei afferma che sembrano agire per danneggiarsi a vicenda. Quanto vantaggio ricava l’Isis da questa situazione?

Un vantaggio enorme. I bombardamenti russi sono rivolti, per la gran parte, contro i ribelli filo-americani, anziché contro i miliziani dell’Isis. Le persone che prendono la metropolitana tutte le mattine per andare a lavoro ritengono che sia prioritario combattere contro l’Isis, ma non i grandi della terra, i quali cercano di raccogliere il nostro consenso, affermando, falsamente, che la loro priorità è la lotta contro l’Isis. Le persone comuni ascoltano queste dichiarazioni e si tranquillizzano, pensando che i grandi della terra stiano facendo qualcosa per loro, ma non sanno che la vera lotta contro l’Isis non è mai iniziata e che, in questo momento, esiste una volontà politica che intende mantenere in vita l’Isis.

 

Quanto può risultare utile studiare a fondo le “maledette regolarità” dei terroristi per prevenire o contrastare attacchi jihadisti?

Studio i terroristi quattordici ore al giorno nel tentativo di prevedere quello che faranno nel futuro prossimo e il modo in cui seducono i nostri ragazzi. È un lavoro molto difficile, ma è utile per la società. Credo che il compito dei sociologi del terrorismo sia quello di mettere i propri studi al servizio della società, ma sono anche consapevole di risentire molto della mia formazione al MIT di Boston, che insegna a ragionare in questo modo.

La sociologia del terrorismo dovrebbe avere un’utilità pratica. Questo aiuta a comprendere come mai il mio libro si basi sullo studio delle vite concrete dei terroristi e di ciò che realmente fanno le loro organizzazioni. Attribuisco un’importanza enorme alla teoria, ed io stesso ho elaborato una teoria sociologica per spiegare i processi di disumanizzazione del nemico politico nelle cellule terroristiche, ma poi queste teorie devono aiutarci a capire come vivono i terroristi, come si finanziano, come organizzano la loro vita quotidiana, come reclutano, quali sono i loro rapporti con i loro familiari e molto altro.

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Lei indica otto differenze tra Isis e Al-Qaeda. Quali sono le più determinanti?

Dal punto di vista delle persone che prendono la metropolitana per andare al lavoro, la differenza più importante è che al-Qaeda preferisce esportare terroristi, perché ritiene che l’attentato perfetto sia quello contro le nostre città, mentre l’Isis preferisce importare terroristi, perché ritiene che la priorità sia quella di chiamare a raccolta tutti i jihadisti per edificare una nuova realtà statuale che chiama califfato.

L’Isis non voleva colpire Parigi. È stata costretta a farlo perché i bombardamenti aerei erano diventati troppo intensi. Se noi smettessimo di bombardare l’Isis, al Baghdadi non realizzerebbe più attentati in Europa. Al Qaeda, invece, continuerebbe perché, come ha scritto Bin Laden, attribuisce un valore intrinseco al massacro dei cittadini occidentali mentre svolgono la loro vita quotidiana. 

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I media occidentali tendono a rappresentare l'Isis come dotato di una «forza impressionante», ma lei dimostra nel libro che i fatti sono diversi da quelli riportati. Quali sono, secondo lei, le cause di questa discrepanza?

L’Isis è il nulla che avanza nel niente. I fatti dicono che, nella grande maggioranza dei casi, avanza quando non trova nessuna seria opposizione davanti a sé. Prendiamo il caso di Sabrata, la città libica, verso il confine con la Tunisia. I giornali dissero che l’Isis avanzava impetuosamente in Libia. Analizzai i fatti e trovai che l’Isis aveva conquistato Sabrata, entrando con venti fuoristrada nel centro della città. Ha presente quelle grandi macchine che si chiamano Pick-up? Sabrata era priva di truppe in sua difesa perché lo Stato non esiste più in Libia. Lo ripeto, come esercito, l’Isis è un fenomeno irrilevante. Come fenomeno culturale, invece, è imbattibile, almeno in questo momento.

 

«Non esistono solo il Bene e il Male». Lei si sofferma a lungo nell'analisi degli errori della mentalità a codice binario. Perché l'Occidente ha difficoltà a comprendere le cause profonde del fenomeno Isis?

Siccome noi occidentali attribuiamo un’importanza immensa al denaro, pensiamo che il denaro sia la causa di qualunque fenomeno politico o religioso. L’osservazione sociologica dimostra che le persone sono diverse e che non tutti agiscono dietro la spinta di interessi economici. Ci sono uomini che scelgono la povertà e il martirio, pur avendo la possibilità di vivere una vita agiata. Il caso del miliardario Bin Laden è il più noto di tutti. Nel mio libro racconto le vite dei jihadisti che sono riusciti a realizzare una strage nelle città occidentali dal 2001 a oggi e mostro che, nella maggioranza dei casi, la povertà non è una causa importante di terrorismo. 

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A proposito della capacità attrattiva dell’Islam e della radicalizzazione di giovani europei segnati da drammi esistenziali, poveri e benestanti che siano, lei suggerisce di riconsiderare il modello di “ricchezza” occidentale basato sul PIL. Una soluzione potrebbe essere il suo metodo DRIA (modello teorico con finalità di ricostruire i processi socio-psicologici che presiedono al delitto di sangue nelle formazioni terroristiche)?

L’osservazione storica dimostra che il capitalismo occidentale ha diffuso un livello di ricchezza e di libertà, in tutti gli strati della popolazione, che non ha precedenti nella storia dell’uomo. È quanto ha scritto Schumpeter e sono d’accordo con lui. Il problema è che non tutti sono interessati a essere più liberi o più ricchi. I giovani jihadisti che hanno seminato il terrore nelle nostre città, dal 2001 a oggi, si battevano per costruire una società meno libera e meno ricca. Con il modello DRIA, che spiega ciò che accade nelle vite dei ragazzi occidentali che si convertono alla cultura jihadista, ho cercato di spiegare che il terrorismo di vocazione esisterebbe lo stesso, anche se eliminassimo ogni più piccola traccia di povertà. La crescita della ricchezza non è in grado di rispondere alle domande dei giovani sul significato delle loro esistenze. Il terrorismo di vocazione nasce da una perdita di significato esistenziale che viene recuperato attraverso l’adesione a un’ideologia radicale che crea ciò che ho chiamato la mentalità a “codice binario”.


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