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Perché raccontare la Shoah agli adolescenti. Intervista a Fabrizio Altieri

Perché raccontare la Shoah agli adolescenti. Intervista a Fabrizio AltieriRaccontare la Shoah agli adolescenti, descrivere loro la violenza e la morte dell’olocausto, può essere ancora utile? Oppure la Giornata della memoria, che ci apprestiamo a celebrare, è solo un altro modo per perderci in un rito collettivo di cui i giovani ignorano ancora il senso?

Ne abbiamo parlato con Fabrizio Altieri, insegnante e autore di numerosi libri per bambini e ragazzi, tra cui il recente L’uomo del treno, edito da Piemme nella collana Il battello a vapore, il racconto di eroi comuni che, con piccolo gesti, riescono a sopravvivere alla Shoah e a narrarci di una solidarietà fuori del comune.

 

Perché è importante raccontare la Shoah agli adolescenti? Fino a che punto una pagina così dolorosa e violenta può essere formativa per loro?

Perché è accaduto qualcosa di così terribile e assurdo che loro devono sapere che ciò che sembra impossibile invece può riaccadere. La memoria, anche a livello naturale, serve proprio a questo: impedire il ripetersi degli errori. La mente dei ragazzi, bombardata di continuo da stimoli molteplici, spesso tende a farli vivere in un luogo e in un tempo che non è mai quello presente. È come se vivessero in un futuro prossimo fuori dal loro corpo: li hai davanti, ma non sono lì. Questo porta a una continua distrazione che fa dimenticare tutto, compresi i grandi eventi della Storia. Paradossalmente far leggere loro un libro che parla del passato può riportarli a vivere nel presente.

 

Lei è insegnante di scuola superiore, quindi ha avuto la possibilità di confrontarsi con diverse generazioni e vari tipi di adolescenti. Com’è cambiato nel corso degli anni il loro interesse verso la Shoah e la Giornata della memoria?

Non ho notato grandi differenze tra l’atteggiamento dei ragazzi di oggi e di quelli degli anni passati. Quando gli fai capire cosa è successo realmente in quegli anni disgraziati, reagiscono come ogni essere umano colpito al cuore e si fanno subito interessati. Bisogna solo stare attenti che la Giornata della memoria non appaia ai ragazzi come una delle decine di “cose da fare” che vengono proposte, dalla scuola e non solo, il che ridurrebbe l’impatto sulle loro coscienze banalizzandone i contenuti. Evitare la scontatezza in agguato in tutte le cose che si ripetono con regolarità, questa è la sfida per noi insegnanti.

Perché raccontare la Shoah agli adolescenti. Intervista a Fabrizio Altieri

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In generale che rapporto hanno gli adolescenti con il passato e con la storia? Le sembra che ci sia ancora un interesse?

La storia viene vista dai ragazzi come qualcosa di soporifero e tutto sommato inutile in quanto la identificano con la disciplina scolastica. Gli antichi romani, il Medio Evo, il Rinascimento: che noia! Salvo poi appassionarsi a videogiochi e romanzi (sì, proprio romanzi, perché se un argomento li appassiona i libri i ragazzi li leggono eccome) ambientati proprio in quei periodi storici. Ma se riuscissimo a trasmettere ai giovani che la storia non è soltanto una successione di avvenimenti, ma anche il giudizio su quello che è accaduto nel passato per far sì che l’orrore non avvenga di nuovo, allora la prospettiva cambierebbe. E se riuscissimo a mostrare ai ragazzi le grandi figure della storia come i protagonisti di un grande romanzo che è arrivato fino a loro e che ora tocca proprio a loro farsi carico di scrivere il capitolo successivo, da protagonisti, credo che questo atteggiamento negativo cambierebbe.

 

Leggendo il libro colpisce il modo in cui viene introdotta nella narrazione la Shoah con piccoli accenni inseriti mentre si parla di tutt’altro. Un primo avviso si ha mentre sta parlando dell’Orso (uno dei protagonisti del romanzo) e riflettendo sul suo lavoro e sulla morte sua e degli alberi lei scrive: «Per gli uomini, nel ’43, il boscaiolo poteva essere chiunque, bastava che portasse una divisa». Perché ha scelto proprio questa tecnica narrativa?

Quello che è accaduto in quei tempi è stata una cosa particolare. L’orrore assoluto si è introdotto nella vita quotidiana a passi felpati come un gatto che passa di lì per caso. La guerra era una cosa orribile e la vita era durissima, chi ha progettato lo sterminio ha approfittato della guerra per coprire il mostro che stava nascendo. Basta pensare a come tutto era programmato come la fabbricazione di un prodotto, con i tempi e i protocolli di un’industria, come se si stesse costruendo qualcosa e non uccidendo persone. Come se fosse una cosa normale. Ho voluto far insinuare nella narrazione l’orrore a piccoli passi in maniera subdola, come avvenne nella realtà.

 

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Il primo contatto che l’Orso, i suoi lavoranti e anche i lettori hanno con la Shoah è attraverso gli occhi degli ebrei deportati che guardano all’esterno da uno dei treni che li porterà in un campo di concentramento: «Guardavano senza chiedere, senza rimproverare, c’era tutta la stanchezza del mondo in quegli occhi sfiniti». Cosa dicono quegli occhi a un ragazzo di oggi?

Dicono che quegli occhi sfiniti potrebbero essere i suoi. Tutto sta nelle circostanze; qualcuno aveva deciso che le persone sul treno sembravano soltanto esseri umani, ma in realtà non lo erano. Quelli sul treno parlavano romano, erano esattamente come i loro concittadini, eppure in base a una decisione ideologica li avevano presi e caricati nei carri che si usano per le bestie. Quegli occhi, nemmeno più disperati ormai, erano stati scelti come potrebbero essere scelti gli occhi del lettore, senza un motivo. Dicono che bisogna vigilare perché non si vedano più occhi come quelli.

 

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Una delle prime preoccupazioni dell’Orso è quella di raccogliere una documentazione fotografica e di questo incaricherà Giuliana, che ha dimostrato di saper usare la macchina fotografica. In un’epoca di selfie, soprattutto tra adolescenti (ma non solo), che valore assume questo momento del libro?

L’Orso, vedendo quei treni, si rende conto per primo che quello che sta succedendo è fuori dalla logica pur terribile della guerra. In apparenza regala la macchina fotografica a Giuliana per poter ricostruire al meglio il vagone da sostituire nel treno nazista, ma in realtà sa che quelle foto saranno importanti anche “dopo”. Lui, che ha già vissuto la Prima guerra mondiale, ha visto come non sia servita a nulla perché il ricordo si è cancellato nelle menti della gente e si sta svolgendo un’altra guerra perfino più terribile. L’Orso sa che quello che sta succedendo avrà bisogno di qualcosa che lo mostri perché ci sarà chi negherà e che noi siamo così miseri che ce lo dimenticheremmo, senza qualcosa di visibile che ce lo ricordi. E regalando la macchina a Giuliana, questo però senza saperlo, le indicherà e determinerà il suo destino. Anche i selfie che si fanno i ragazzi possono essere qualcosa per ricordare; momenti belli o comunque importanti della loro vita, ma non vanno demonizzati, secondo me, perché esprimono comunque un bisogno, servono per dire “ecco, io ci sono, esisto” come se volessero esserne certi, in una società che tende a farci dimenticare di noi stessi.

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Cosa si augura che L’uomo del treno regali ai suoi giovani lettori?

Quello che auguro a tutti i lettori, al di là del libro letto: appassionarsi alla storia e leggerla senza annoiarsi. Per L’uomo del treno vorrei che facesse riflettere su quanto sia facile mascherare il male e quanto possa fare chi vuole operare per il bene con le sue povere forze. Che occorre rimanere umani anche di fronte all’orrore impensabile e che questa umanità non può togliercela nessuno. Non c’è legge non c’è ideologia non c’è divisa che può decidere chi è degno di vivere e chi no, chi è un essere umano e chi non lo è.


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