«Perché questo libro non è famoso?». Su John E. Williams e “Stoner”
«Perché questo libro non è famoso?» si chiedeva Charles P. Snow a proposito di Stoner, il romanzo pubblicato nel 1965 da un quasi misconosciuto John Edward Williams, professore di Letteratura all’Università di Denver. Snow, scienziato e romanziere inglese, scrisse sul «Financial Times» un articolo entusiastico su Stoner, sdoganandolo al pubblico britannico ma rimproverando la stupidità dell’epoca. In effetti la prima ricezione di Stoner fu piuttosto scarsa. Il romanzo vendette circa duemila copie, fu esaurito nel giro di un anno e non venne ristampato. Suscitò qualche recensione positiva: un breve articolo del «New Yorker» parlava di «un ritratto magistrale della vita di un uomo normale, quasi invisibile». Irving Howe, un influente opinionista di quegli anni, ne scrisse in un pezzo dal titolo molto azzeccato: «Le virtù del fallimento». Nel 1972 Williams vinse il National Book Award for Fiction con Augustus, il suo quarto romanzo; ma quando morì, nel 1994 (pubblicò, in vita, quattro romanzi e due sillogi di poesie), il necrologio del «New York Times» lo ricordò più come “poeta” ed “educatore” che come romanziere.
Chi poteva immaginare che a cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione Stoner avrebbe goduto del privilegio di una seconda possibilità, tanto da divenire un best-seller letto e tradotto in svariati paesi? Nel 2003 il romanzo venne ristampato da Vintage; nel 2006 dalla New York Review Books, per iniziativa dello scrittore John McGahern, che scrisse un’accorata prefazione. Uscirono poi recensioni sempre più positive, tra cui quella di Morris Dickstein, che parla di un «perfect novel», un romanzo perfetto «così bello da togliere il fiato». Ma il punto di svolta si ebbe nel 2011, per iniziativa della scrittrice Anna Gavalda, che lo tradusse in francese. All’edizione francese seguirono quelle in altre lingue europee, con record di vendita soprattutto in Olanda, Spagna, Israele, Germania e Italia, dove venne pubblicato da Fazi nel 2012, per la traduzione di Stefano Tummolini. Da allora si moltiplicano i fan, i circoli, i gruppi di lettura, gli interventi sul web. Molte personalità celebri del mondo letterario e non, in prevalenza maschili, si sono riconosciute nella comune predilezione per questo romanzo: da Breat Easton Ellis a Ian McEwan, da Nick Hornby a Tom Hanks e, nel Belpaese, Niccolò Ammaniti e Tommaso Pincio.
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Ma di cosa parla Stoner? Come giustificare l’enorme successo della sua “resurrezione”, che desta ancora più stupore in quanto non veicolata da fenomeni estrinseci, quali un film o una serie televisiva? Il romanzo ha una cadenza lenta, una scrittura nitida, piuttosto classica come impianto, perché il suo autore voleva «mantenere viva l’attenzione del lettore senza ricorrere a espedienti e invenzioni, commuovendo più o meno allo stesso livello in cui ci commuoviamo nella vita». Già con l’incipit Williams privilegia un attacco osato di rado da altri scrittori: la storia è già finita e la voce narrante riferisce gli eventi che sono già accaduti. «William Stoner si iscrisse all’università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della Prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dover restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956.»
Il cognome Stoner evoca la pietra, il duro lavoro dei genitori, dei piccoli coltivatori diretti del Missouri che sperano, nel loro silenzio e nella devozione alla loro terra, che il figlio si distingua negli studi di agraria, per tornare a occuparsi della fattoria di famiglia. Ma il giovane studente William Stoner viene attratto e turbato insieme dalla Letteratura inglese e dal linguaggio poetico. L’epifania si compie durante la lettura di un sonetto di Shakespeare, letto ad alta voce dal professor Sloane. Fino a quel momento Stoner è vissuto nella dimensione della Natura; è il linguaggio che gli permette di raggiungere una nuova consapevolezza. Consegue il suo dottorato in Letteratura inglese nel 1918, lo stesso anno in cui conosce Edith Bostwick, la figlia di un banchiere. Sposerà la donna, e da lei avrà una figlia, Grace, ma il loro sarà un matrimonio infelice. Nonostante la sua travagliata vita sentimentale Stoner accudirà Grace nella sua crescita e si occuperà della sua educazione. Sul versante professionale le cose non vanno meglio: liberatosi un posto nel dipartimento d’inglese – muore il mentore di Stoner, Archer Sloane – viene assunto il professor Lomax, uno specialista dell’Ottocento. Williams intende tratteggiare in Lomax una parodia del Romanticismo e della tesi che ci si possa affidare alle sensazioni come a una guida per la verità. Lomax è la nemesi di Stoner, ch’è specializzato nel pensiero logico del Medioevo e nella poesia del Rinascimento inglese, permeato di influenze classiche. Le lezioni di Lomax sono popolari, perché il suo comportamento è eccentrico e fa leva sul culto della personalità. Stoner è invece un insegnante coscienzioso ma non emozionante e la sua carriera è costellata di umiliazioni: l’ultima e più atroce beffa si compirà quando il nuovo direttore di dipartimento (lo stesso Lomax) gli assegnerà, per il nuovo trimestre, dei corsi adeguati a un docente alle prime armi. Dopo questa sconfitta Williams libera Stoner in una storia d’amore con Katherine Driscoll, una giovane studiosa. La loro sconveniente relazione viene scoperta e provoca uno scandalo nell’ambiente accademico. Stoner è perciò costretto a lasciare Katherine e la sua carriera prosegue placida, senza successi né riconoscimenti, ostacolata per altri anni dal rettore. Il protagonista ha poi un declino fisico, si ammala di cancro e muore all’età di sessantacinque anni.
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Nel novembre 2016 sono usciti per Fazi editore tre nuovi volumi dedicati all’opera di John Williams: una nuova edizione brossurata del romanzo, la prima biografia dell’autore pubblicata in anteprima mondiale, L’uomo che scrisse il romanzo perfetto, di Charles J. Shields e La saggezza di Stoner, una raccolta di brevi saggi collazionata da Barbara Carnevali, che ne ha scritto pure la prefazione, con contributi di Axel Honnet, Eva Illouz, Julica Griem e Freider Vogelmann. Ai lettori italiani vengono presentati gli interventi di un dibattito sul romanzo di Williams che ha infervorato, accomunato o diviso alcuni esponenti della scuola di Francoforte, una delle tradizioni filosofiche del Novecento che più ha difeso il valore conoscitivo della Letteratura e dell’Arte e che a Williams e al suo Stoner ha deciso di dedicare un dossier speciale all’interno di un numero di «West End».
Alcune domande che emergono dal testo curato da Carnevali sono: cosa hanno visto i lettori degli anni Duemila che i lettori degli anni Sessanta non potevano o non volevano vedere? Perché la vita privata dell’uomo medio ci interessa particolarmente, oggi? Nel caso di Stoner è più che mai importante contestualizzare: gli anni Sessanta negli Stati Uniti, la vigilia della guerra nel Vietnam, la polizia dell’Alabama che manganella i primi manifestanti per i diritti civili a Selma, i primi tumulti nel quartiere di Watts, a Los Angeles, erano eventi che richiedevano di “essere nella Storia”, di “fare gli eroi” e “cambiare il mondo”. Un “uomo medio”, un “uomo qualunque” rinvia alla questione della medietà, quella dimensione che Aristotele, nella sua Poetica, definiva propria degli «uomini come noi» e che per questa ragione sottraeva all’ambito alto della tragedia, destinata a riferire solo degli uomini nobili, quelli «migliori di noi», dal punto di vista sociale e morale. La commedia era invece più consona a rappresentare la vita degli strati più bassi della società umana. Questa medietà torna a essere degna d’interesse per la modernità: il romanzo moderno parla della vita ordinaria degli uomini ordinari e riesce a renderla intrigante proprio in virtù della sua mediocrità. Riprendendo una tesi di Guido Mazzoni, è come se Stoner rappresentasse il compimento della vocazione democratica del romanzo moderno.
Il centro della discussione dei teorici della scuola di Francoforte non è estetico, se non nella misura in cui si può intendere l’estetica alla maniera di Hegel, come la dimensione sensibile in cui si manifesta un contenuto di conoscenza, una forma di verità. Williams credeva in Stoner perché questi incarnava la sua convinzione che i romanzi dovessero «imitare nella forma il mondo naturale». Il tempo dell’universo va in una direzione, mentre per Williams il compito del romanziere è quello di ricreare la storia di una persona o di più persone, muovendosi in un tempo e in uno spazio vissuti con intensità, tra gli intervalli della vita e della morte. Williams ammirava L’Ulisse di Joyce e La signora Dalloway di Virginia Woolf per il loro virtuosismo tecnico; ma la sensibilità di queste opere voleva essere poetica, e le poesie vertono sul «caos dell’esperienza»: questo per lui era inautentico e solipsistico; la forza del romanzo doveva invece concentrarsi sulla natura umana e sui problemi morali.
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Dalla vita di Stoner sembra emergere, perciò, un ideale di autenticità disancorato dalla Storia, come da ogni dimensione sociale e politica. Stoner vive il suo mestiere di studioso con lo stesso spirito della sua infanzia, quando faceva il contadino: ci sono alcune leggi che regolano la vita individuale e vanno assecondate per evitare frustrazioni, ma vanno anche accettate e declinate positivamente, con una saggezza di ispirazione romana ed ellenistica, come una sorta di “esistenzialismo pagano”. Vogelmann ricollega Stoner alla figura del Socrate platonico, col quale condivide alcuni aspetti: la consapevolezza dei limiti del proprio sapere, l’accettazione della finitezza esistenziale, della morte, e la lotta contro i Sofisti, gli impostori della conoscenza (incarnati nel romanzo da Lomax e Walker).
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Il lettore che vorrà assaporare il piacere di confrontare la critica filosofica contenuta in La saggezza di Stoner con la biografia di John E. Williams, L’uomo che scrisse il romanzo perfetto, si accorgerà con stupore – e una delizia tutta bibliofila – delle tante analogie che intercorrono tra il personaggio di Stoner e il suo artefice. Shields, l’apprezzato autore di biografie eccellenti come quella di Kurt Vonnegut e Harper Lee, compie un lavoro certosino nello scandagliare le vicende esistenziali dell’autore di Stoner, le sue fragili relazioni sentimentali e le tortuose vicende editoriali, la genesi complicata dei suoi quattro romanzi, sempre travisati dalla critica più accreditata, ma pure il disinteresse dei colleghi del dipartimento di Inglese nei confronti del suo lavoro, nell’ambiente maschilista e conservatore, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, dell’università di Denver, quello che per Masters, nel romanzo, è «un rifugio per gli inetti, per coloro cui non si prospettano una professione né una carriera più allettanti». Da lettori compiaciuti dei collegamenti istituiti in questi volumi tra la vita e la Letteratura, riguardo a John E. Williams e a Willam Stoner, se ci ponessimo la domanda: è lecito immaginarceli come degli uomini felici? La suggestione più incisiva che ci viene suggerita è la seguente: «Penso che [Stoner] abbia avuto un’ottima vita. Di certo, ha avuto una vita migliore della maggior parte della gente. Ha fatto quello che voleva, si appassionava a quello che faceva, ha compreso l’importanza del lavoro che svolgeva […]. Il suo lavoro gli ha conferito una forma speciale di identità e ha fatto di lui ciò che egli è stato». Sono parole di John E. Williams, autore di Stoner. Ci sono voluti cinquant’anni ma hanno ottenuto finalmente giustizia.
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