Perché non camminiamo più scalzi? L’uomo e la dipendenza tecnologica
Quanto dipendiamo dalla tecnologia? Molto, stando a quanto sotiene Paolo Gallina, docente di Meccanica Applicata presso l’Università di Trieste e autore di L'anima delle machine. Tecnodestino, dipendenza tecnologica e uomo virtuale (Dedalo Edizioni), finalist del Premio Letterario Galileo per la divulgazione scientifica 2016.
Non è detto, però, secondo Gallina, che questa dipendenza possa avere soltanto risvolti negativi, come l’indebolimento delle facoltà cognitive degli uomini, ma potrebbe anche rivelarsi utile al potenziamento di alter facoltà in grado di preparare la mente ad «accogliere ragionamenti astratti più evoluti rispetto al passato».
Ne abbiamo parlato proprio con Paolo Gallina.
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Fin dal sottotitolo, L'anima delle macchine pone al centro tre aspetti di discussione molto importanti. Il primo è "tecnodestino". A che punto siamo, oggi, con la sua concretizzazione?
Col termine “tecnodestino” mi riferisco all'ineluttabile futuro che vedrà sempre più una simbiosi tra la tecnologia e l'uomo, una simbiosi così intensa da assumere caratteri di irreversibilità.
In realtà, questa tendenza è sempre stata presente nella storia dell'uomo. Non serve scomodare i robot e l'intelligenza artificiale per rendersi conto che la simbiosi è già in atto. Un esempio banale: non riusciamo più a camminare scalzi perché la pelle della pianta dei piedi è troppo fragile. La "tecnologia scarpe" è diventata indispensabile e non c'è nessun uomo vivente disposto a tornare indietro.
Qualche giorno fa è stata rilanciata la notizia di un esperimento con un robot che sarebbe in grado di operare scelte e prendere decisioni sulla base di un "ragionamento morale" appreso grazie allo storytelling. Fino a che punto ritiene possibile uno sviluppo in questa direzione? E quali potrebbero essere le implicazioni?
Dotare un'intelligenza artificiale di un modulo in grado di mimare un ragionamento morale è profondamente diverso dal possedere un ragionamento morale. Operare scelte morali coinvolge non solo la componente razionale della nostra mente ma anche altre sfere umane legate ai sentimenti e alle sensazioni.
Ciò non significa che una macchina non possa aiutare l'uomo a operare una scelta in luogo di un'altra. Esistono già sistemi esperti di supporto alle decisioni che forniscono indicazioni utili in situazioni complesse, soprattutto in ambito militare. Ma la scelta ultima non viene loro delegata. E questo soprattutto per ragioni etiche. Credo in ogni caso che la morale e l'etica necessitino di un supporto biologico (l'uomo) per vivere e svilupparsi e non di un hardware al silicio.
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L'altro elemento sul quale pone l'attenzione è la "dipendenza tecnologica". Le conseguenze, in questo caso, sono solo negative (penso alla "fossilizzazione cognitiva" di cui lei stesso parla nel libro), oppure da tale dipendenza possono svilupparsi fenomeni positivi inattesi?
Certamente la dipendenza dalla tecnologia può portare in molti casi a eccessi ed estraniazioni dal "comune vivere" con conseguenze sociali preoccupanti. Ciò nonostante, credo che la dipendenza tecnologica sia uno sviluppo della nostra società che difficilmente potrà cambiare rotta. È necessario conviverci e sviluppare la dipendenza in maniera tale da salvaguardare l'unica vera ultima ambizione dell'umanità: la massimizzazione della felicità media degli uomini. Se l'uomo riuscirà a trovare globalmente un equilibrio con le macchine affinché la felicità media sia garantita, allora tutto il resto non ha importanza.
Per quanto riguarda la fossilizzazione cognitiva, credo sia utile analizzare l'esempio delle calcolatrici. Oggigiorno molti ragazzi non sono in grado di eseguire calcoli a mente in quanto hanno delegato la funzione computazionale alla calcolatrice. Questo effetto della fossilizzazione cognitiva è sicuramente negativo. D'altra parte, la mente si sta sviluppando per accogliere ragionamenti astratti più evoluti rispetto al passato. E questo, per contro, è un bene.
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Infine, il terzo ambito di discussione è l'uomo virtuale, o meglio la realtà virtuale vissuta come rifugio, mondo nel quale rintanarsi e vivere situazioni alternative. A questo proposito, lei pone, tra gli altri, due esempi tra loro assai distanti: la pornografia virtuale e Virginia Woolf che si rifugiava nei suoi libri. Possiamo provare a delineare cosa spinge a una fuga dalla realtà? E quanto incide, in questo, l'eccesso di mondo in cui siamo immersi (penso al flusso informativo continuo che viaggia anche sui social)?
La fuga mentale dal mondo è un'esigenza che è stata affinata dall'evoluzione. L'uomo, così come lo conosciamo, con i suoi istinti primordiali, le sue tensioni e le sue ansie ha un bagaglio di istinti che sono stati ottimizzati per operare in mondi selvaggi, pieni di predatori e antagonisti. In questo mondo ancestrale si è sviluppata, tra le altre la capacità di prevedere il futuro, permettendo all'uomo primitivo di immedesimarsi in scenari paralleli. Contemporaneamente la natura ha dotato l'uomo della capacità di provare piacere durante la simulazione; questo per fornire un incentivo e spingere l'uomo a immaginare opzioni alternative con più efficacia.
Ora quel mondo non esiste più, ma la mente dell'uomo continua a essere dominata da pulsioni preistoriche. Una di queste è la capacità di sognare a occhi aperti, ricavandone piacere. Ecco da dove deriva l'esigenza di fuggire dal reale.
Ovviamente, le tecnologie digitali offrono strumenti efficaci per fuggire dalla realtà. E d'altra parte, il mondo reale non sempre propone delle contropartite allettanti.
A proposito di realtà virtuale, lei dedica uno spazio al fenomeno del "trollismo". Quali sono le dinamiche in atto nel comportamento di un "troll" e da cosa derivano?
Non sono un esperto del settore. Bisognerebbe rivolgere la domanda a uno psicologo che si occupa di ambienti digitali. Ciononostante, è evidente che l'anonimato tipico di alcuni ambienti digitali di socializzazione scatena comportamenti aggressivi. La società intesa come insieme di uomini e donne uniti per un bene comune, serve soprattutto a porre un freno agli istinti egocentrici a favore di un bene sociale. Quando un ambiente sociale digitale non riesce a riproporre tutte le dinamiche del mondo reale, ad esempio impedendo di associare un volto a una voce, ecco che gli equilibri si spezzano e l'egoismo del singolo e i suoi istinti primordiali di aggressività, esplodono.
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Un altro fenomeno, che negli ultimi tempi acquista sempre più spazio, è la diffusione di notizie scientifiche false o artefatte, soprattutto nel web. Si tratta solo del solito abuso della credulità popolare, oppure c'è dell'altro? E cosa può fare la divulgazione scientifica seria per porre un argine?
Credo che il fenomeno sia sempre esistito, pure nel passato, anche quando non esistevano cellulari e tablet. La maggior parte delle leggende deriva ad esempio da fatti stravolti e ingigantiti dalla trasmissione orale. È insita nell'uomo la pulsione a raccontare la verità senza affidarsi al vero.
La divulgazione scientifica può far molto in proposito. Credo però che il ruolo principale della divulgazione scientifica adesso sia diverso. Deve cucire un divario tra conoscenza e ignoranza, perché, molto più che in passato, la conoscenza è dominio e l'ignoranza è povertà, anche economica.
Il punto di forza del Premio Galileo è senz'altro il tentativo di avvicinare la scienza ai giovani, dal momento che il vincitore sarà selezionato da studenti della scuola superiore di secondo grado. Quanto è importante abituare i più giovani a ragionare secondo un metodo scientifico?
Da scienziato non sono sicuro che il metodo scientifico sia l'unica lente con cui interpretare la nostra umanità. È certo che l'ignoranza va combattuta, ma ci sono altri aspetti della nostra vita, aspetti importanti, che esulano dalle scienze. L'arte, le emozioni, l'empatia sono strumenti di interpretazione altrettanto importanti. I giovani devono abituarsi a ragionare a trecentosessanta gradi, rendendosi conto che ogni esperienza di vita è un arricchimento.
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