Perché le donne sognavano una macchina da cucire? Intervista a Bianca Pitzorno
Il sogno della macchina da cucire (Bompiani, 2018) è il nuovo romanzo di Bianca Pitzorno, che dopo aver scritto per molti anni romanzi per ragazzi amatissimi dal pubblico più giovane, da qualche tempo si dedica alla narrativa per adulti.
Protagonista di questo nuovo libro è una ragazza senza nome, che vive in una cittadina di provincia, presumibilmente in Sardegna anche se i luoghi restano anonimi, al principio del ventesimo secolo. Quando non esistevano ancora gli abiti confezionati, il compito di vestire le persone spettava ai sarti e alle sarte, rigorosamente divisi per sesso: le donne si occupavano dell'abbigliamento femminile e gli uomini di quello maschile, perché era impensabile sia che una donna toccasse un corpo maschile e lo vedesse senza indumenti, sia il contrario.Se le grandi sartorie erano riservate ai ricchi, le sartine vestivano le persone meno abbienti, a cui spesso confezionavano nuovi indumenti rifacendo quelli vecchi, oppure venivano reclutate "a giornata" per revisionare i guardaroba nelle case nobili e borghesi, rammendando e riparando ogni cosa.
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Ma perché la macchina da cucire poteva costituire un sogno? Prima di tutto perché una donna che riusciva a possederne una poteva lavorare di più, in quanto la macchina le permetteva di effettuare le cuciture molto più in fretta rispetto al farle a mano, garantendosi maggiori introiti. In secondo luogo, esisteva una legge molto curiosa, scoperta per caso dalla Pitzorno, in base alla quale una donna che viveva da sola, cosa che al tempo era vista con sospetto e poteva portare anche all'accusa di prostituzione, riusciva a evitare questa accusa dimostrando, grazie al possesso di una macchina da cucire, di potersi mantenere col suo lavoro.
Lavorando per svariati clienti, la sartina senza nome di Il sogno della macchina da cucire ci racconta non solo la sua vita, in cui raggiunge una condizione dignitosa partendo da un'infanzia poverissima, ma anche quella delle famiglie per cui si trova a lavorare, offrendo al lettore un vivace ritratto dell'Italia di provincia agli albori del Novecento.
Abbiamo intervistato Bianca Pitzorno nella sede della casa editrice Bompiani a Milano.
Questo è un romanzo di donne, di ogni estrazione sociale e di ogni età, e anche il punto di vista è quello di una giovane donna…
Sì, e dirò di più: ogni storia che trovate nel romanzo è vera.
Sono donne vicine alla mia famiglia (per esempio, nel libro è racchiusa anche la storia della sorella della mia bisnonna), o donne la cui storia mi è stata raccontata, o che ho scoperto leggendo e facendo ricerca. Poi, ovviamente, ci ho aggiunto del mio.
Ed è vero anche il sogno della macchina da cucire, che dona il titolo al suo libro?
Il sogno della macchina da cucire è quello dell'indipendenza economica: per una ragazza povera, senza un marito o una famiglia a occuparsi di lei, era fondamentale poter dimostrare di essere in grado di provvedere a se stessa, e possedere una macchina da cucire voleva dire poter esercitare una professione in autonomia.
Grazie alla macchina da cucire, molte ragazze si sono liberate: nonostante l'analfabetismo, sono riuscite a passare da semplici operaie a padrone di se stesse, artigiane a tutti gli effetti.
Avere una sarta al centro della storia presenta un punto di vista particolare: la sarta vede ogni cliente, ricca o povera, nobile o borghese, nella sua massima vulnerabilità, svestita e priva di qualsiasi ornamento o scudo. È uno dei motivi per cui ha scelto proprio questo punto di vista?
Questo libro mi si è srotolato tra le mani come un gomitolo: in realtà non avevo molte idee, prima di iniziare a scrivere. L'unica che sentivo "forte" era questa, il fatto che una sartina povera vivesse la sua intera esistenza come sotto la minaccia di un coltello puntato: una sola settimana senza lavoro poteva farla finire prigioniera in una casa di tolleranza.
Ho cercato di evocarla, di darle una voce, e questo è stato il seme da cui è nato il libro.
Mi ha anche imposto l'uso di una lingua semplice e chiara, per rispettare quello che poteva essere il modo di esprimersi e di pensare di una sartina.
Però la particolarità del punto di vista è qualcosa di cui mi sono resa conto scrivendo.
La sarta è quella che vede il sovrappeso che di solito nascondi, che scopre che sei invidiosa dell'amica o della sorella perché più benestanti di te, che svela ogni tua insicurezza, e questo è emerso di capitolo in capitolo.
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In tutte le storie che vengono raccontate nel romanzo, anche quando si tratta di incontri fugaci, si può intuire non solo quel momento preciso delle loro vite, ma anche il loro futuro. Poche azioni e poche parole sono sufficienti a delinearle alla perfezione, perciò è inevitabile chiedersi come sia stato scelto il momento dell'incontro e quanto lavoro di limatura e pulizia ci sia stato sul testo prima di arrivare alla forma finale.
La scelta del momento dipende essenzialmente dalle storie che ho scelto di inserire nel libro, che vengono da racconti che mi sono stati fatti nel tempo, oppure da vecchi articoli di giornale.
Quello che volevo raccontare era la scoperta, da parte della sartina, che in fondo lei è la più libera: certo, le sue clienti sono più ricche, ma i loro matrimoni e la condizione sociale sono spesso una prigione. Persino la donna più libera di tutte, la giornalista americana, si trova legata dalla passione e dallo stereotipo del grande amore, il cui esito è tutt’altro che felice.
Volevo fotografare il momento in cui l'invidia della sartina nei confronti di ognuna di queste donne scema, con l'affiorare della consapevolezza della sua maggiore libertà.
Per quanto riguarda la scrittura, non ho riscritto nulla.
L'indipendenza che la protagonista riesce a conquistare le fa affrontare in modo differente anche il rapporto con gli uomini, tanto che non sogna nemmeno il matrimonio.
È disincantata nei confronti degli uomini perché ha fatto un errore iniziale, che ho potuto osservare nella realtà. Con il desiderio di emancipazione e di farsi anche, nel suo piccolo, una cultura, si è trovata a distaccarsi leggermente dalla classe sociale di appartenenza. Sa leggere e scrivere, apprezza l'opera, ma sa anche che non potrà mai sposare un uomo di ceto superiore, e allo stesso tempo non si può più accontentare di un garzone analfabeta: in un certo senso, è fuori dal mercato del matrimonio. Il fatto poi che sia una donna con un minimo di cultura è pericoloso per gli uomini.
Raccontando una storia di inizio Novecento, si parla in realtà di un tema ancora fortemente attuale, quello dell'occupazione femminile e della parità di diritti sul lavoro, perciò il romanzo offre numerosi spunti di riflessione sulla strada che abbiamo fatto, e su quella ancora da fare. Posso chiederle un consiglio per le donne di oggi?
È molto difficile dare consigli alle donne di oggi, perché la mia generazione è stata molto più fortunata della vostra. Al termine degli studi trovavamo subito lavoro, e con un buono stipendio: potevamo addirittura scartarli, i lavori, e desideri come vivere da sole, sposarci, viaggiare per noi erano facilmente realizzabili.
Quando vedo donne competenti e piene di entusiasmo che, nonostante tutto, non trovano nulla che vada oltre il tirocinio, mi sento una privilegiata rispetto a loro, ma purtroppo io non ho consigli da dare perché è cambiato il mondo e sono cambiate le regole del gioco.
Lei non ha dato un nome al paese in cui si muovono i personaggi, ma se da un lato questo lo fa sembrare quasi una scenografia teatrale, dall'altro arriva il senso di chiuso, di "nido". Aveva in mente un luogo specifico durante la scrittura?
Non ho battezzato il luogo, ma avevo in mente la mia città, Sassari.
Nella mia città, forse più in passato rispetto a oggi, ho avuto modo di assistere a tutte le dinamiche sociali che descrivo nel mio libro, ma in realtà volevo creare un archetipo della città italiana di provincia.
Per lo stesso motivo non ho mai citato una data, anche se si riesce a capire a quale periodo mi riferisco perché cito la nascita delle principesse, figlie della regina Elena, e un vestito realizzato in modo da assomigliare a un pezzo del corredino della principessina Mafalda, quindi siamo nei primi anni del Novecento.
Pensando alla scrittura, ci sono autori che sente come dei maestri, e che hanno il merito di averla ispirata? O la spinta a scrivere è venuta solo dall'interno?
Ho cominciato a scrivere nel 1970, quando leggevo da decenni, e sicuramente le mie letture mi hanno sempre influenzata.
Ci sono stati grandi amori letterari, condivisi anche con gli amici: dal Signore degli Anelli ai romanzi di Virginia Woolf, a Stephen King.
Da bambina mi facevano spesso leggere le riduzioni dei romanzi famosi, e non immaginate la mia sorpresa nello scoprire come fossero davvero quei libri che ero convinta di avere letto!
Ci sono opere che ho riletto più volte, come La lettera scarlatta, e che ogni volta mi hanno fatto scoprire nuovi punti di vista.
Vi confesso di avere anche una mia personalissima lettura di piacere: i thriller di Anne Perry.
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Quindi la spinta a scrivere è arrivata già durante l'adolescenza? O è qualcosa che ha sentito più avanti?
Sono diventata una scrittrice per caso. Ero una grande lettrice, ma ero decisa a lavorare nel mondo del cinema ed ero stata assunta alla Rai. Un giorno, mentre uscivo dal bagno, il mio capo ufficio, che poi era il grande Raffaele Crovi, mi ha fermata e mi ha chiesto se me la sarei sentita di scrivere, in un mese, un romanzo per ragazzi di 120 pagine.
C'era un buco in una nuova collana, così ecco che mi trovai ad accettare la sfida, provando a scrivere. Scrissi Sette Robinson su un'isola matta e da quel giorno non ho più smesso.
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Per la prima foto, copyright: Annie Spratt.
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