Perché andiamo a teatro?
Ho fatto un esperimento: cercare su Google la locuzione “andare a teatro”: i primi sei, o sette, risultati, proponevano questioni di ordine grammaticale, scolastico, o erano legati a eventi recenti. Poi iniziava una lunghissima serie di link dedicati a come vestirsi per andare a teatro.
Da qui la mia domanda, di cui al titolo: perché andiamo a teatro?
Qualcuno propone una sorta di decalogo, e io, che non l’avrei forse mai saputo, vengo a saperlo, grazie all’onniscienza di Google. Tra i motivi, ce n’è uno, il quinto, «Perché se stai ben attento, potrai percepire l’atmosfera “magica” che caratterizza un evento unico ed irripetibile», del quale non riesco a vedere la controparte pratica, reale, nelle mie frequentazioni teatrali.
Quant’è comoda la vecchia scena borghese, per la quale lo spettacolo vero è nel foyer, e quello in sala solo una, spesso, scomoda appendice!
Non è neanche questione, forse, dell’hic et nunc dell’atto teatrale, ma di quello di noi spettatori, che dimentichiamo la nostra presenza e il nostro esserci al compiersi delle azioni sceniche. Il vero spettacolo sembra essere dalla nostra parte, in platea, coi dormienti, gli impazienti, i controllori del cellulare.
E hai voglia a dire “teatro civile”, o “riprendiamo la parola”: aveva ragione Kantor, ma in un modo un po’ diverso. Quelli che si portano l’inerte super-marionetta appresso, quelli morti, siamo noi.
Ci sono delle eccezioni, di certo: e si verificano quando, a noi poveri veri amanti del teatro, è concesso di vedere negli occhi e nei corpi degli altri spettatori, inconsapevoli condotti al massacro, la sorpresa, il fastidio, lo sdegno; vedere in loro gli effetti di quel che insidia la loro incrollabile comodità.
Quelli sono i momenti di più alt(r)o teatro.
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