“Per Isabel. Un mandala” di Antonio Tabucchi
Nella galleria di strani personaggi che il narratore incontra in Requiem (romanzo che Antonio Tabucchi scrisse in portoghese nel 1991) c’è una certa Isabel, vecchia amica che il protagonista fa di tutto per rivedere. Rientra a Lisbona di proposito, si reca in un certo strano ristorante con fontana, patio arabeggiante, tavoli da biliardo e un teatrino tascabile retto da cariatidi di legno (tutto così irreale perché esiste davvero, come tanti luoghi della città) e, per ammazzare il tempo, si mette a giocare, bere e chiacchierare col maȋtre, in attesa che Isabel arrivi. Quando finalmente arriva... il capitolo si chiude e il successivo ci porta altrove. Della donna più nessuna traccia.
L’inedito di Tabucchi che Feltrinelli manda in libreria oggi – collocabile, come spesso avviene con lo scrittore pisano, nello scaffale di mezzo fra i racconti lunghi e i romanzi brevi – è stato scritto in vari momenti della sua vita, fino al 1996. Si intitola appunto Per Isabel. Un mandala e riprende, fra gli altri, due personaggi di Requiem: il poeta Tadeus Slowacki e Isabel, appunto, che con Tadeus ha avuto una relazione, seguita da una gravidanza, interrotta da un aborto, che forse è all’origine della depressione che l’ha portata al suicidio (o forse è colpa della dittatura, che l’ha buttata in un carcere e torturata). In Requiem veniva come risucchiata in un buco nero o, meglio, cadeva in una botola del teatrino tascabile tabucchiano.
“Oggi mi sento un Balzac; sto terminando questo rigo”, scriveva un maestro del microracconto come Augusto Monterroso. Anche le miniature di Tabucchi evidentemente aspirano alla completezza di una comédie humaine in scala ridotta, i cui personaggi si rincorrono, spariscono e ricompaiono magicamente, come nella Parigi di Vautrin e Rastignac. Nell’universo di Tabucchi, poi, tempo e spazio sono categorie indefinite, che il sentimento di un occidentale, specie quando è politicamente impegnato, qualche volta induce ad accettare solo per esercizio di virtù, per il dovere che sente (o crede) di avere nei confronti di ciò che chiamiamo “realtà” o “storia”.
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Ma se il sottotitolo di Requiem era “un’allucinazione”, quello di quest’altro libro è “un mandala”, cioè una figura (il cerchio) e un metodo di ricerca della verità che rimanda alle religioni orientali, tutt’al più filtrate attraverso Carl Jung o altro intellettuale delle nostre lande. Se ne parla anche in un racconto de I volatili del Beato Angelico, dove Tabucchi inscena uno scambio di lettere con un tale Xavier Janata Monroy, teosofo già visto in Notturno indiano e che riappare anche qui, in Per Isabel. Così come riappare, insieme a tante altre citazioni sibilline, il poeta Camilo Pessanha, già spunto collaterale per un racconto, Gli archivi di Macao, che poi si rivelava un dialogo con il padre morto di cancro alla gola, malattia che, in una postilla a Requiem (dove, tra i personaggi, c’è proprio il padre il quale, vestito da giovane marinaio, gli parla in portoghese), ispira tutta una dissertazione sul potere evocativo delle lingue e della scrittura.
Insomma un racconto fatto con le frattaglie (la cosa non suoni offensiva, perché le frattaglie sono abbondantemente presenti nella cucina lusitana che Tabucchi amava e abbondantemente citava) che può esser letto come testo “a chiave”, in cerca di identità reali o di simbologie più o meno precise. Ma la verità del mandala, raggiunta tramite cerchi concentrici, finisce sempre in un cerchio di sabbia. È volatile come il fumo delle sigarette di Álvaro de Campos o come l’interpretazione (letteraria o tout court) che accieca proprio quando pretende di far luce. Il fumo, si dice da qualche parte in Requiem, provoca il cancro; è peggio del sole.
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