Passione civile, politica, umanità, intervista a Luigi Manconi
È un’ampia conversazione fra Christian Raimo e Luigi Manconi quella che compone Corpo e anima, uscito da poco per minimum fax. Attuale presidente della Commissione per la tutela dei Diritti umani al Senato, Manconi racconta nel libro le sue passioni politiche, gli incontri, le trasformazioni di una vita di militante. Ma anche «la scrittura, il giornalismo, la critica musicale, un’attività instancabile».Vita intensissima e veloce, che si dipana nel dialogo con Raimo, a partire dagli anni Settanta, fino alle istanze più importanti dei giorni nostri. Ampio spazio è dato alla tutela della dignità delle persone e ai profondi ragionamenti che la devono ispirare (ad esempio, l’impossibilità di dire “io sono tu” per enfatizzare solidarietà, e invece la differenza come cifra della dignità dell’altro).
Lo abbiamo intervistato al Salone del Libro di Torino, al termine di un’appassionata presentazione pubblica, condotta da Alessandro Leogrande, con Enzo Bianchi.
Questo intenso dialogo fra lei e Christian Raimo si intitola Corpo e anima. Due parole che appartengono alle fondamenta della cultura e della filosofia occidentali, nel loro reciproco riferirsi. Come mai questo titolo?
Penso che non solo la politica, ma qualunque agire umano debba tenere insieme corpo e anima. Nella mia lettura della politica parlo così tanto del corpo perché ritengo che sia il luogo da cui si originano i diritti. L’autodeterminazione della persona trova la sua base, il suo retroterra e la sua ragione fondante nella tutela della dignità del corpo fisico. Dell’organismo umano.
Il libro parla anche del potere delle immagini. Non si può non pensare ad alcuni riferimenti teorici, come Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag. Lei ha ricordato come, in alcuni casi che ben conosce (Cucchi, Mastrogiovanni, ma non solo), l’esposizione delle immagini di un corpo offeso sia stata determinante per la percezione del fatto, a livello nazionale. Crede che anche nel caso di Giulio Regeni la possibilità di mostrare le fotografie potrebbe fare la differenza in una vicenda che ha come sfondo un contesto internazionale?
Questo discorso dipende da due variabili. La prima è una legge suprema, indiscutibile: la volontà dei familiari. A me è capitato di affrontare direttamente due volte questo discorso ed è stato uno strazio. La prima volta ho aspettato 36 ore i genitori di Cucchi perché decidessero se mostrare le foto di Stefano all’obitorio. Nel corso di queste ore mi fu chiesto quale fosse la mia opinione. Loro decisero di esporle quasi senza averle viste. Va detto che quelle foto cambiarono l’orientamento dell’opinione pubblica e costituirono un limite oltre il quale non si poteva più tornare indietro. Anche nel caso di Mastrogiovanni, i familiari titubarono rispetto alla scelta di rendere pubbliche le immagini. E la sorella non le vide mai. Voglio dire che il consenso dei familiari è fondamentale ed è una decisione che non vale una volta per tutte. Il discorso dell’efficacia è decisivo. Aggiungo però che esiste un voyeurismo della tragedia, una “pornografia della morte”. Allo stesso tempo, penso che la fotografia di Aylan Kurdi fu molto importante perché disse agli europei: guardate che lì, a un passo da dove voi fate i bagni di sole, c’è il cadavere di un bimbo.
Nel libro propone un discorso molto articolato sulla legalità, in cui sottolinea che occorre tenere conto della distanza o vicinanza tra individuo e norma, ovvero del rapporto tra norma astratta e dura concretezza. La legalità deve insomma prevedere anche l’idea di “strappo”…
Certamente, di strappo anche rispetto all’ingiustizia: la legalità non garantisce l’incolumità rispetto all’ingiustizia. Ci possono essere situazioni in cui la denuncia di quest’ultima comporta il fatto di operare uno strappo rispetto alla stessa legalità. Comporta l’aprire un conflitto che rompa uno status quo dominante. Io credo nell’utilità dei movimenti sociali e della disubbidienza civile, credo nell’utilità delle azioni non violente che possono mettere in discussione il concetto astratto e formale di legalità. Perciò sostengo che la legalità possa essere sottoposta a tensione, a patto che ci siano tre condizioni: la prima, è il ricorso a mezzi non violenti; la seconda, la disponibilità a pagare di persona; la terza, la capacità di proporre una forma più avanzata di legalità.
Nella presentazione con Alessandro Leogrande ha detto: «Non penso che l’utopia debba essere criminalizzata o negata. Vicino all’elaborazione delle utopie vorrei che si potesse ammonire sulla loro fragilità. Il vero compito è come tutelare la dignità della persona». Viviamo in società sempre più complesse. Che cosa ne pensa delle visioni più o meno utopiche legate al cosiddetto “multiculturalismo”?
Innanzitutto, il multiculturalismo è un concetto sociologico. Prendo un mezzo pubblico a una certa ora del giorno e quello è un mezzo “multiculturale”, nel senso che magari gli italiani sono una minoranza. C’è una sociologia del multiculturalismo che rappresenta la realtà come fatta dalla convivenza pacifica (o non pacifica) di molte persone. Poi c’è un’utopia multiculturalista che dice: le molte culture possono vivere serenamente e reciprocamente aiutarsi. Questo, secondo me, non è sbagliato, ma è esito di fatica e dolore, e non di visioni ottimistiche. Una società con un milione e mezzo di musulmani è già una società multiculturale. Ma questa è sociologia. Non una società ideale. Per essere ideale, queste diverse forme culturali devono trovare forme di convivenza pacifica, di reciprocità, di relazione, di dialogo ecumenico.
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Lei cita Umberto Saba: «Gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. […] gli italiani sono il solo popolo che abbia alla base della sua storia (o della sua leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione»…
Cito Saba in relazione ai movimenti degli anni Sessanta, in particolare quelli studenteschi. Sono stati movimenti che non hanno mangiato il padre, non hanno ucciso i propri genitori, ma i propri coetanei. La lotta di quegli anni è stata spesso una lotta fratricida. E non è stata capace di rimettere in discussione gli assetti più generali. Per questo cito Saba, ma anche Giorgio Gaber. Il suo pezzo La mia generazione ha perso dice tutto. La considero la mia autocritica più radicale. Aggiungo la considerazione che la mia generazione non ha prodotto né un film, né un quadro all’altezza dei tempi. Non a caso la rappresentazione artistica più affascinante è la musica leggera.
Letteratura e politica. Scrive: «Cercavo nel romanzo contemporaneo anche solo tracce, allusioni, suggestioni che offrissero alla mia attività politica uno spessore più profondo e ispirazione più complessa». In diversi punti si riferisce a degli scrittori. C’è ad esempio, Pontiggia di Vite di uomini non illustri, e Fenoglio, Levi, Morante. Ci può dire quali altri nomi legati alla letteratura le sono particolarmente cari?
Con Pontiggia ho avuto un rapporto amicale vero, fatto di molto rispetto e, da parte sua, anche di qualche occasionale confidenza. Scrissi almeno una recensione che gli piacque tantissimo, a Nati due volte. Ne fu molto colpito. Poi c’è Salvatore Mannuzzu, che per me è stato come un fratello maggiore. È sassarese, come me, ha sempre vissuto a Sassari. L’intreccio tra stima letteraria e stima personale è davvero notevole. Sono stato amico di Giancarlo Majorino e quando ero giovane ero estasiato dalla poesia di Pagliarani, con cui ci fu un incontro importante.
Fra i molti nomi che ringrazia c’è anche quello di Giovanni Raboni.
Arrivai a Milano nel ’67, in autunno. Avevo portato da Sassari a Milano un libro di Raboni: Le case della Vetra. Alla fine del ’69, ero in un centro anarchico dove ci eravamo dati appuntamento con persone di varia appartenenza politica. A un certo puto vedo Raboni: il più alto, il più bello e il più elegante di tutti. A lui devo la mia sopravvivenza fisica, è stato un vero amico, fin da quando era un curatore dell’Enciclopedia Garzantie io collaboravo con lui. Mi diede di che sfamarmi per anni, sosteneva che fossi un ottimo redattore. La mia maniacalità per la scrittura nasce lì. E poi mi era caro Volponi. Con Elsa Morante ebbi un incontro serio perché lungo, con più occasioni. Il fatto è che la mia scuola sono stati Goffredo Fofi e Grazia Cherchi. Mi dicevano che dovevo leggere Silvio D’Arzo. Con Grazia andavamo in trattoria; mi dava molti libri, e io dovevo dimostrare di averli letti.
Un’ultima domanda, per tornare all’oggi. Da adesso fino a ottobre, ci sarà un ampio dibattito attorno al referendum costituzionale. La classe politica riuscirà a far comprendere una materia così complessa agli italiani?
La risposta è negativa. Si rischia che si giochi intorno a due estremizzazioni, entrambe deformanti: la vittoria del sì sarebbe vittoria di un’idea autoritaria, quasi al limite della rottura costituzionale. E la vittoria del no potrebbe essere interpretata non solo come vittoria degli oppositori alla riforma costituzionale, ma anche vittoria di chi vuole mantenere i propri privilegi e stipendi. Questo argomento indecente in effetti è stato usato. Potrebbe insomma ridursi a un referendum pro o contro Renzi.
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