Passa sempre un altro autobus. “Storia di Ásta” di Jón Kalman Stefánsson
Storia di Ásta (Iperborea, traduzione di S. Cosimini) è uno dei più bei romanzi che mi siano capitati tra le mani negli ultimi tempi. L’autore è Jón Kalman Stefánsson, definito da Goffredo Fofi, sull’«Internazionale» 1278 dello scorso 19 ottobre, «uno scrittore da Nobel». A lettura in corso, mi sono trovato più volte a tirare fuori il volume dalla grande tasca del mio giaccone. Leggi le prime due pagine, dicevo, come se in quelle prime due pagine si nascondesse l’aurora boreale.
Dire che cosa racconta questo romanzo non è difficile. Il titolo lo spiega chiaramente. Eppure qualche precisazione è d’obbligo e per spiegarlo mi avvalgo delle prime due pagine, già citate in precedenza. La prima contiene solo le seguenti parole: «Le pagine che seguono». Poi c’è il bianco e per capire come termina la frase bisogna andare avanti.
«raccontano la storia di Ásta, che un tempo è stata giovane, e che ormai è piuttosto anziana nel momento in cui queste righe vengono scritte, o meglio, scribacchiate, perché qui accade tutto di fretta, anche quando, a volte, la storia procede con tale lentezza che il tempo è quasi sul punto di fermarsi.
Tra poco spiegherò perché è stata chiamata Ásta.
Perché i suoi genitori hanno scelto questo nome, e non Sigríður, María, Gunnþórunn, Auður, Svava, Jóhanna, Guðrún oppure Fríða, perché tutti nasciamo senza nome e immediatamente, o poco dopo, ci assegnano un nome, perché la morte faccia più fatica a trovarci. Dammi un nome, e la morte mi troverà meno facilmente. Ma com’è possibile raccontare la storia di una persona senza toccare anche le vite che la circondano, l’atmosfera che sostiene il cielo – e soprattutto, è legittimo farlo?»
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A ben vedere, infatti, la storia non è quella di Ásta ma quella del suo universo: un ruolo di primo piano assumono i suoi genitori, la balia, le persone che incontra nel suo percorso e, alle volte, anche quelle che avrebbe potuto incontrare ma che per qualche ragione non ha mai conosciuto.
Il romanzo è fatto di una scrittura magmatica e avvolgente, nella quale Fofi ha riscontrato una «sregolata vivacità», di una prosa che a tratti scorre veloce e che, in altri, ti costringe a fermarti e ti obbliga a pronunciare ad alta voce quelle parole, per sentirle risuonare, anche nella traduzione, dei venti del nord. Il racconto travalica i personaggi e travolge qualsivoglia linearità temporale, eppure mai, in nessun punto, si perde il filo del discorso, mai ci perdiamo nella rete di storie che vanno a tratteggiare, più o meno da vicino, la storia di Ásta. E si tenga presente che si tratta di 479 pagine.
Poeta ed ex bibliotecario, Stefánsson dimostra un coraggio che gli scrittori nostrani spesso non hanno: parla di sentimenti elementari, di questioni di vita e di morte. E lo fa usando le parole giuste, quelle parole che ormai non abbiamo più il coraggio di usare perché il timore di essere tacciati per ingenui è troppo grande. Quelle parole che abbiamo usato tanto da svuotarle di significato.
Stefánsson parla di morte, a lungo, di come questa ci costringa a pensare alla vita, alla memoria e al senso delle nostre azioni. Parla di amore, dei cortocircuiti che si vengono a creare quando ci accorgiamo che quel sentimento, in realtà, è lontano dall’essere uno ed eterno come tante commedie ci hanno insegnato. Ma parla anche della solitudine, dell’Islanda, che non è solo fatta di geyser e di panorami da cartolina, ma anche di vite, più nel male che nel bene, forgiate dal freddo e di cuori congelati che solo l’alcol riesce a temperare.E certo, parla di Ásta, che significa amore, ed è il frutto della passione travolgente e distruttiva tra Helga e Sigvaldi ed è la ragione di vita della sua balia, che si è presa cura della protagonista da quando non era che una bimba. E pensare che, in origine, Ásta avrebbe dovuto stare con lei al più uno o due anni.
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Un romanzo malinconico e nostalgico, sul cui sfondo c’è un’Islanda dura, dal carattere severo, e, spesso, aspramente inospitale. Eppure sempre più turisti si riversano sulle sue coste, con la viva curiosità di scorgere quelle bellezze naturali che nel continente non si possono vedere che in fotografia. Ma viverci, in quelle terre, è un’altra cosa. Se non avessero saputo litigare tra di loro, scrive Stefánsson, non sarebbero mai sopravvissuti, gli islandesi. In fondo, lo scontro è un elemento imprescindibile del movimento e pretende la giusta dose di energia. Non bisogna avere fretta. D’altra parte, ci ricorda lo scrittore islandese, «passa sempre un altro autobus, [...] passano sempre altri taxi, ma il momento che passa non torna mai più».
Per la prima foto, copyright: Jonatan Pie su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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