“Paradiso vista inferno”, intervista a Chiara Frugoni
Paradiso vista inferno (Il Mulino, 2019) è un affascinante viaggio che Chiara Frugoni compie in uno dei capolavori dell’arte medievale italiana: gli affreschi che Ambrogio Lorenzetti realizzò attorno al 1338 per mostrare gli effetti del buono e del cattivo governo all’interno del Palazzo Pubblico di Siena, città che all’epoca era amministrata dal cosiddetto Governo dei Nove. Scopo del ciclo di affreschi era appunto quello di celebrare la prosperità del territorio cittadino e del suo contado durante questa forma di governo, mostrando per contrasto gli effetti negativi della tirannide.
Chiara Frugoni, grande studiosa del mondo medievale a cui ha dedicato numerosi saggi, analizza minuziosamente gli affreschi, sottolineandone tutti i collegamenti storici e artistici, a partire da quella che è forse la più grande innovazione compiuta dal Lorenzetti: la rappresentazione pittorica della gente comune, degli anonimi abitanti di Siena colti nei loro momenti della vita quotidiana. Falegnami, fabbri, mulattieri, fornai, armaioli o soldati sono i protagonisti della scena, in un’epoca in cui la pittura aveva come soggetti soltanto le figure religiose o i potenti del momento.
Abbiamo fatto qualche domanda a Chiara Frugoni su questo suo affascinante saggio, proposto dalla casa editrice Il Mulino in una bellissima edizione illustrata a colori che permette di seguire il viaggio dell’autrice all’interno degli affreschi.
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Lei è stata docente di Storia Medievale e ha scritto numerosi saggi su vari argomenti, tutti riconducibili a questo periodo storico. Ma cosa l’ha spinta all’inizio a dedicarsi al Medioevo piuttosto che a un altro periodo?
Certamente l’aria di famiglia: mio padre era medievista e insegnava storia medievale. Purtroppo è morto giovane e io non ho avuto altri maestri, sono un’autodidatta. All’inizio, però, proprio per non essere una “figlia di” ho fatto la bibliotecaria, e sono entrata in università solo dopo la morte di mio padre. Oltre ai discorsi familiari, perché in casa mio padre parlava volentieri del suo lavoro, c’è un paese della bergamasca, Solto Collina, dove io passo da sempre le mie estati, che era poverissimo e molto isolato, tanto da rimanere molto indietro, proprio medievale. Quand’ero bambina, ad esempio, in chiesa uomini e donne sedevano separati e venivano divisi da una tenda durante la predica, cosa che ho trovato dipinta in un quadro che raffigura la predicazione di San Bernardino a Siena. Studiando il Medioevo molte cose mi erano perciò già familiari, tanto che mi sembrava di esserne l’ultima testimone vivente. Mia nonna possedeva parecchi campi e io passavo tanto tempo con i contadini, da cui ho appreso molte cose, per esempio sull’uso degli attrezzi agricoli.
Nel caso specifico di questo ultimo libro, perché ha deciso di analizzare proprio l’opera di Lorenzetti?
Molti anni fa avevo scritto un articolo su di lui, perché i suoi affreschi mi erano sembrati un manifesto politico straordinario, uno dei pochissimi grandi cicli medievali completamente laici. Mi è sembrato il momento opportuno di studiarlo a fondo, anche perché loda quello che c’è e ci sarà, in modo allettante ma che non sempre corrisponde alla realtà, cosa che potrebbe essere utile ricordare anche oggi, mentre risuonano in continuazione alcuni concetti, dalle grandi opere alla sicurezza, con i nemici di cui liberarsi magari affondando le navi… Quella di Lorenzetti è una geniale opera di propaganda, perché la realtà della Siena del tempo era completamente diversa e drammatica: era una città violenta e inquieta, preda di carestie e con un comune accusato di corruzione. L’affresco ci mostra come è possibile avere il consenso dei cittadini attraverso una voce che non svanisce, le immagini di un luogo frequentato da tutti. Era una cosa astuta, perché per la prima volta venivano rappresentate le persone comuni, che vedendosi ritratte si sentivano gratificate e potevano credere che, dando il loro consenso al governo dei Nove, la città avrebbe prosperato.
Colpisce infatti questo ruolo delle immagini, che in un Medioevo in cui la maggior parte delle persone erano analfabete, erano l’unico mezzo per trasmettere delle nozioni anche agli illetterati.
Questo in realtà non è del tutto vero. Certe immagini, per esempio quelle dei miracoli operati dai santi, sono difficili da comprendere senza una mediazione. A Siena sappiamo che il popolo era molto alfabetizzato: del resto, gli affreschi sono accompagnati da molti cartigli scritti in volgare. Gli statuti del 1310 erano stati tradotti in volgare ed esposti in luoghi pubblici perché anche le “povere persone” potessero leggere e comprendere le leggi, il che significa che l’alfabetizzazione era abbastanza diffusa anche tra le classi più umili.
Con le dovute differenze, nel mondo di oggi dominato dalle immagini e popolato da molti analfabeti di ritorno non siamo un po’ tornati alla mentalità medievale e a una prevalenza di un messaggio affidato alla visione rispetto al testo scritto?
Certamente sì. L’immagine colpisce di più e rimane. Gli scritti vanno e vengono, ma un affresco non svanisce. Fin dalla mia tesi di laurea ho sempre seguito un metodo di lavoro che unisca i testi e le immagini: in questi affreschi del Lorenzetti mi sono proposta di spiegare ogni particolare. La gentilezza della direttrice del palazzo pubblico di Siena mi ha permesso di montare un trabattello per poter esaminare gli affreschi da molto vicino, e grazie a questo ho potuto notare oggetti come l’insegna di una locanda, una scatola per pesare le monete, l’insegna sul cappello di un pellegrino, tante cose che sfuggono guardando l’affresco nel suo insieme.
Certe pagine del suo libro lasciano al lettore l’impressione di un effetto a cascata: si parte da uno spunto offerto dall’esame dell’affresco e ci si ritrova immersi in un gioco affascinante di rimandi ad altri artisti, a svariate opere di pittori e letterati. Ha rischiato qualche volta di perdere il filo della sua ricerca o di smarrirsi un po’?
No, perché sono una persona disordinata nella mia vita quotidiana, ma molto ordinata nel lavoro, per cui avevo ben presenti tutti i fili conduttori. Poi è chiaro che questo libro ho potuto scriverlo adesso che ho quasi ottant’anni, mentre non ne sarei stata in grado a trenta. In questi anni sono anche stati messi in rete tanti documenti medievali, e questo ha facilitato molto il mio lavoro. È molto più agevole avere a portata di mano sullo schermo del computer la riproduzione di un testo antico senza dover fare lunghe ricerche in biblioteca.
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Ho riletto una sua intervista del 2014 al quotidiano «la Repubblica», in cui dichiarava che il libro che aveva appena terminato sugli affreschi francescani della Basilica superiore di Assisi sarebbe stato l’ultimo, quasi un suo “congedo”. Cosa le ha fatto cambiare idea e continuare a scrivere?
Quel libro in un certo senso era stato effettivamente un congedo, nel senso che ha chiuso la mia esperienza di studi francescani, a cui ho dedicato circa trent’anni della mia vita.
La passione per lo studio però non mi ha lasciato, per cui penso che finché la testa non mi abbandonerà continuerò a studiare e a scrivere. In questo mi sento molto fortunata perché il mio lavoro, per quanto faticoso, è anche molto gratificante e coincide per me con il piacere.
Ha altri progetti nel cassetto per il futuro?
Sì, il prossimo libro sarà sulle paure, che mi sembra un tema interessante perché dalle paure medievali si può arrivare a quelle contemporanee.
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