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Paolo Villaggio, mostruosamente quotidiano

Paolo Villaggio, mostruosamente quotidianoEra destino che accadesse proprio di lunedì, al mattino presto. Paolo Villaggio appartiene a quella schiera di personaggi che bucano talmente lo schermo da diventare roba di famiglia.  Quel giorno di inizio luglio, periodo in cui il caldo opprime la città e le ferie sono ancora lontane, timbrare il cartellino ha improvvisamente avuto un significato diverso da tutti gli altri giorni. Quando il tempo erode piano piano un tuo mito e poi se lo porta via, è come se fosse venuto a mancare uno di famiglia. Proprio il giorno prima scherzavo con un amico a proposito della sua creatura più riuscita: il ragionier Ugo Fantozzi, e solo ventiquattro ore dopo ho appreso della sua morte, all’età di ottantaquattro anni.  

La scomparsa di uno dei volti più noti del cinema comico italiano ha lasciato un grande vuoto in chi, come la mia generazione e quella precedente, aveva camminato parallelo prima con il professor Kranz o Fracchia e il suo famoso “organigramma”, poi con il ragioniere che prende l’autobus al volo, e ancora con tutte le sfaccettature che Villaggio ha saputo ricamarsi nel grande e nel piccolo schermo. La saga inaugurata nel 1975 dalla regia di Luciano Salce però merita un capitolo a parte. La grande forza di questo artista anticonformista, senza alcun timore di picconare e mettersi di traverso, è stata quella, inventandosi Fantozzi, di arrivare non solo vicino alla gente, ma mettersi proprio in mezzo a essa. L’antidoto magico per conquistare il pubblico è stato intrufolarsi nella sua quotidianità, vestendo i panni di uno sfortunatissimo, al limite dell’inverosimile, impiegato dell’”Ufficio sinistri” che è un po’ la storia di tutti noi. Quante volte, io che quelle pellicole le so a memoria e mi hanno conquistato sin da giovanissimo per l’inarrivabile comicità pungente e tragica, mistica e inverosimile, ho scherzato e ripetuto parola per parola, cadenza vocale compresa, pezzi di scene epiche che si snodano tra un ristorante giapponese e un treno per Ortisei, tra una improvvisata sulle piste da sci e una puntatina a Courmayeur. Ecco dove Villaggio, tramite il suo ragioniere, ha conquistato il pubblico.

Paolo Villaggio, mostruosamente quotidiano

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Paolo Villaggio attore, ma Paolo Villaggio anche scrittore. Fondamentale infatti segnalare come la genesi del personaggio si trovi in una serie di racconti che il comico genovese scriveva per il settimanale «L’Europeo», fondato nel 1945 da Arrigo Benedetti e Gianni Mazzocchi, e che vennero inclusi nella raccolta Fantozzi pubblicata nel 1971 e divenuta un best seller da un milione di copie. Per me abituato a buttar giù recensioni, parlare direttamente del personaggio e non dei suoi libri è ancora più prestigioso. È come raccontare Dorian Gray senza analizzare “Il ritratto”, o descrivere Renzo e Lucia senza Don Abbondio, i Bravi e il matrimonio che non s’ha da fare. E per rendere l’idea in modo più terreno, restando nel cinema, parlare con Carlo Verdone e non con uno dei suoi mille volti (dal coatto al rigido professore, dal cocco di nonna al prete di campagna) che lo fecero conoscere al grande pubblico. Sovente ci domandiamo cosa ci sia dietro ogni libro, così facciamo quando osserviamo una pellicola. Cosa c’è dietro la trama, dietro a ogni scena, ma soprattutto che uomo c’è dietro al protagonista.

In questi anni, la frase più gettonata che ho sentito dire dai non fantozziani è stata: "A me non fa ridere, mi fa tristezza perché resto sempre in pena per lui". Ebbene, il personaggio Fantozzi non va giudicato come un fatto oggettivo, ma come una metafora di ciò che viviamo. Perché se vai in vacanza a Courmayeur pensi a Calboni che conosce tutti e in realtà lo fa solo per mettersi in mostra, perché se ti capita di dover salire su un treno pensi alla vacanza a Ortisei, perché se bevi in compagnia non puoi non esclamare "Beva! Beva!" come il Semenzara al Casinò, e quando vai a sciare non puoi non dare appuntamento a tutti "giù all'olimpica".

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In ufficio poi non si contano le situazioni simil fantozziane. Parliamo dell'humus da cui tutto ha preso vita, perché Fantozzi è esisto veramente, Villaggio dixit, e si chiamava Bianchi, e aveva l’ufficio in un sottoscala. E quando andate dal fornaio, come si può non pensare a Cecco, “l’orrendo butterato di ventinove anni con l’alito agghiacciante tipo fogna di Calcutta”? E una partita di calcetto con gli amici, non è prassi per gli appassionati? Dunque ditemi, vi dividete anche voi in due squadre di scapoli e ammogliati?

La sua è stata una comicità straordinaria, pur raccontando una vita di fallimenti, ed è stata soprattutto parte del vissuto quotidiano, patrimonio malinconico ma veritiero di un’Italia caciarona, disonesta e isterica. Rendere il capoufficio una persona a metà tra un uomo e una divinità o veder apparire l'Arcangelo Gabriele che annuncia a lui, un uomo, la maternità, sono cose che non si erano mai viste prima e non abbiamo più visto dopo, al limite del folle e del blasfemo e proprio per questo straordinariamente spassose. Forse la comicità di Fantozzi va interpretata, ma di certo ha un valore inestimabile se paragonata alle tristi e retoriche battute di molti odierni recitanti che si spacciano per comici e in effetti fanno ridere, ma nel senso più negativo della parola.

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Elogiato dal pubblico come di rado gli capitava dentro le pellicole che lo vedevano protagonista, il nostro ragioniere, perseguitato persino da una nuvola ad personam, si porta via un pezzo di adolescenza o tarda gioventù anche grazie al supporto di straordinari personaggi di contorno che hanno fatto da travi portanti per la sua verve, come la pia signora Pina, umilissima e disposta a tutto per un marito che non dice mai di amare ma che “stima moltissimo”, miss quarto piano Anna Mazzamauro, alias signorina Silvani, che di lui ha scritto, immediatamente dopo la tragica notizia, “è l’unica persona che mi abbia amato veramente” e il costante leit-motiv scimmiottesco che ha investito Mariangela, la figlia più simile a un primate che a un essere umano.

 

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Di Paolo Villaggio resta una mimica meravigliosa anche una volta tolto il basco e abbandonati i sogni erotici sulla Silvani. Un costante imbarazzo in ogni situazione, una recidiva sottomissione a qualsiasi gerarchia, un faccione così ingenuo e puro che lo ha reso comune e sempliciotto, che ha invogliato una larga fetta di spettatori a tifare per lui speranzosi che prima o poi il riscatto sarebbe arrivato in mezzo a tanta tragicomicità.

Due gli ulteriori ruoli che mi hanno impressionato di più: un Villaggio magnanimo, umile, tenero e stoico nei panni del maestro Sperelli nel riuscitissimo film della Wertmüller Io speriamo che me la cavo, in cui non si abbandona a maschere fantozziane ma arriva con la forza della ragione e della bontà al cuore dei bambini napoletani di una scuola in cui faticano a trovare spazio i valori.

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E l’altro, seppur a intermittenza con il suo sosia, quello del cattivo serial killer in Fracchia, la belva umana. L’attore genovese si mostra in una serietà atipica, con una voce profondissima e un ruolo da duro che sporadicamente ha di nuovo interpretato nella sua carriera.

Orsù dunque, cosa siamo oggi? Tanti “megadirettori” o un esercito di Fantozzi alla ricerca di una via d’uscita? Ognuno darà la sua risposta. Intanto grazie Paolo. Ora, dalla tua nuvola di impiegato non scende più la pioggia. Puoi saltellarci sopra, insieme al tuo inseparabile compagno di ventura Gigi Reder, lo straordinario geometra Filini scomparso nel 1998.

E di certo ve lo siete ampiamente meritato.

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