Paolo Sorrentino, the young pop?
Da diversi anni, ogni opera di Paolo Sorrentino è un grandissimo esercizio di narcisismo. Non quello tutto votato alla propria arte del regista, ma quello ancora più compiaciuto del pubblico, dello spettatore. Ci piacciamo se amiamo follemente il cinema di Sorrentino: è lo sguardo innamorato di Narciso: che tanto ama il proprio, bellissimo, aspetto e ignora la ninfa Eco, restando solo con sé stesso. Nella grande raccolta di caratteri che a ogni film Sorrentino si diverte a raccontare, c'è sempre qualcosa di noi, tanto o poco che sia; sempre eccessivo, esagerato, ma affascinante. La ricerca di effetto ci meraviglia.
Sorrentino possiede l'arte rara, perché difficilissima, di girare capolavori popolari: tutto nasce da forti contraddizioni (un Papa appena quarantenne, uno scrittore in crisi creativa), senza nascondere una certa ostentazione, anche stilistica. Il Vaticano è un osservatorio privilegiato e in cui nulla può mancare: le magagne del potente segretario di stato Voiello, le forze e le debolezze dei tanti cardinali cortigiani di Pio XIII, la passione di una giovane donna.
Come il colonnato del Bernini, i personaggi di Sorrentino abbracciano tutti noi che ci sentiamo realmente messi in scena, solo per un istante magari, per un dettaglio o in tutti noi stessi.
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Ogni cosa è divisa tra la luce, che è la forza attrattiva di un personaggio (che mai delude in Sorrentino), e l'oscurità, appesantita dal grosso fardello delle sensazioni che suscita. Tutte le figure sono una scossa in un mondo in cui tutti i giorni si recita il medesimo spettacolo. E nei mondi di Sorrentino tutti i giorni ecco arrivare la varietà di persone e animali di tutti i continenti: non è una retorica specifica ma, come le lussuose fontane dei giardini vaticani, un innesco di meccanismi diversissimi dall'effetto finale unico ed eccezionale.
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Nonostante certi preziosismi, i film di Sorrentino sono amatissimi; o detestati. Mancano, come nel suo chiaroscuro, nel contrasto delle luci e delle ombre, suprema conquista dell'arte greca e del Barocco, i toni intermedi. Sorrentino lo si accetta, è napoletano ed è come Napoli, come Maradona, dai gesti eccessivi, che si innamora e innamora la gente. Quando Pasolini parlava della città era sollevato e ammaliato: «Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente […] continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere».
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É un pop giovane e bello quello di Sorrentino e della sua serie The Young Pope (anche se non limiterei questa categoria a contenitore unico), che non nasconde niente, autentico; popolare, ma non per questo volgare. Non siamo davanti a un immaginario cinematografico nuovo, ma le immagini mescolano malinconia e ironia, come Sorrentino invidia da sempre a Scola. Siamo convinti che la realtà in cui si muove la macchina da presa di Sorrentino sia caratterizzata da incostanza e pentimento, l'essenza stessa della natura umana. Protagonisti in preda a progetti infinitamente vaghi: la loro instabilità è una fedele compagna: quello che si pensa oggi, domani è solo un'ombra. Gli elementi che più piacciono a Sorrentino sono acqua e vento; volubili come lo spirito delle nostre decisioni.
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Forse Sorrentino preferisce i racconti lunghi, per dare spazio a tante storie che l'una vicina all'altra si esaltano e bruciano subito dopo. È l'incostanza come impossibilità di durare: l'ombra, la nuvola di fumo della sigaretta, il vento, per cercare qualcosa di nuovo che possa soddisfarci. Gli uomini sono più realistici disegnati sulla superficie dell'onda e dell'acqua: la loro immagine svanisce ancora prima che possa fissarsi in mente. La mondanità, la propensione all'esibizione, nella quale sono immersi i personaggi, è il regno dell'effimero: “Il divo”, Lenny Belardo e Jep Gambardella ci insegnano che il rimedio, tante volte, viene prima del male.
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