“Palinodia al marchese Gino Capponi” di Giacomo Leopardi – La caduta delle maschere e la fine delle illusioni
«Palinodia: canto opposto, o dire il contrario di quanto detto prima» questa è la definizione data dal lessico Suda.
Errai, candido Gino; assai gran tempo,
e di gran lunga errai.
Giacomo Leopardi fu una voce fuori dal coro, un intellettuale che non condivise affatto l’entusiasmo e l’ottimismo tipici del suo secolo; per questo motivo fu preso di mira da molti intellettuali del tempo, tra questi c’era anche il marchese Gino Capponi, che non apprezzavano i suoi versi amari e disperati. In questo componimento poetico, risalente al 1835, il giovane poeta recanatese sembra voler ritrattare tutto quello che aveva affermato in precedenza; non a caso comincia la palinodia affermando di aver errato e «assai gran tempo».
[…]. Fra maraviglia e sdegno,
dall’Eden odorato in cui soggiorna,
rise l’alta progenie, e me negletto
disse, o mal venturoso, e di piaceri
incapace o inesperto, il proprio fato
creder comune, e del mio mal consorte
l’umana specie.
[…]. Riconobbi e vidi
la pubblica letizia, e le dolcezze
del destino mortal. Vidi l’eccelso
stato e il valor delle terrene cose,
e tutto fiori il corso umano, e vidi
come nulla quaggiù dispiace e dura.
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Leopardi sembra sinceramente pentito e ora è pronto a rimediare ma, in realtà, è tutta una finzione. La Palinodia al marchese Gino Capponi è sicuramente il componimento più mordace, più dissacrante di Giacomo Leopardi; attraverso un’ironia velenosa e distruttiva mette in discussione tutte quelle credenze illusorie che gli intellettuali del XIX secolo avevano create. Nessuna conversione, allora, ma solo un desiderio di smascherare le menzogne del suo tempo.
Aureo secolo omai volgono, o Gino,
i fusi delle Parche. Ogni giornale,
gener vario di lingue e di colonne,
da tutti i lidi lo promette al mondo
concordemente. Universale amore,
ferrate vie, molteplici commerci,
vapor, tipi e choléra i più divisi
popoli e climi stringeranno insieme:
[…]. Tanto la possa
infin qui de’ lambicchi e delle storte,
e le macchine al cielo emulatrici
crebbero, […].
Il Diciannovesimo secolo è il secolo d’oro perché ricco di progressi tecnologici e scientifici: quindi è naturale sentirsi ottimisti e fiduciosi verso il futuro! Cosa pensò, però, Leopardi del tanto decantato progresso? «[…]; onde nella guisa che per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini, e da molti simili mali e spaventi, così di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e facciasi grazia alla novità dei nomi), qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o altro ingegno che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl’insensati, de’ ribaldi e de’ vili, […].» Questo brano è tratto dalla Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi.
Il progresso, per Leopardi, non era riuscito a migliorare l’essere umano, pieno più di vizi che di virtù, e, soprattutto, non risolse l’annoso problema che affliggeva l’umanità ancora alla ricerca di un piacere infinito per durata e per estensione.
Altro passo in avanti fatto nel XIX secolo fu quello di aver accorciato le distanze: «Né vidi meno/da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo,/e da Boston a Goa […].» Certo ogni angolo del mondo era conosciuto e lo si poteva raggiungere facilmente più che nel passato. Questo era un bene o un male?
[…]. Ahi, ahi, ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
l’etra sonante e l’alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare. (Ad Angelo Mai)
Scoprire nuovi mondi e nuove terre aveva reso il globo terrestre più piccolo e aveva accresciuto il sentimento del nulla nell’animo dei contemporanei. Il mondo, secoli prima delle grandi scoperte, era ancora del tutto ignoto e questo alimentava l’immaginazione dei navigatori e dei poeti; una volta scoperto il vero, ecco perire il «caro immaginar» conforto «de’ nostri affanni.» Inoltre queste scoperte avevano ridotto i rischi e i pericoli che sorgevano una volta che l’esploratore si avventurava nell’ignoto; pericoli che, come dichiarato nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, vincevano il tedio e il disprezzo per la vita.
[…]. E già dal caro
sangue de’ suoi non asterrà la mano
la generosa stirpe: anzi coverte
fien di stragi l’Europa e l’altra riva
dell’atlantico mar, fresca nutrice
di pura civiltà, sempre che spinga
contrarie in campo le fraterne schiere
di pepe o di cannella o d’altro aroma
fatal cagione, o di melate canne,
cagion qual si sia ch’ ad auro torni.
Si può ancora parlare di progresso, di «magnifiche sorti e progressive» mentre l’uomo è impegnato a muovere e a dichiarare guerre? Mentre il mondo continua a essere coperto dal sangue delle innumerevoli stragi? Nelle battaglie del passato l’uomo combatteva in nome della libertà e per amore della propria patria; ora (e non solo nell’Ottocento) le guerre vengono fatte per motivi economici, solo per accaparrarsi quante più fonti di ricchezza possibili. Si pensi, ad esempio, ai conflitti in Medio Oriente, terre così ricche di giacimenti petroliferi!
[…]. Ardir protervo e frode,
con mediocrità, regneran sempre,
a galleggiar sortiti. Imperio e forze,
quanto più vogli o cumulate o sparse,
abuserà chiunque avralle, e sotto
qualunque nome.
Altro “vanto”, oltre gli abusi di potere, sono la mediocrità, le ingiustizie e i continui soprusi dei più forti a danno dei più deboli.
calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
il debole, cultor de’ ricchi e servo
il digiuno mendico
Altra nota dolente per Leopardi è anche l’imbarbarimento della cultura la cui trasmissione è affidata ai giornali: «copriran le gazzette, anima e vita/dell’universo, e di savere a questa/ed alle età venture unica fonte!» Anche nell’operetta Parini ovvero Della Gloriail poeta non manca di sottolineare la decadenza culturale del suo secolo; si producono molti libri, si scrive tanto ma i testi sono composti «frettolosamente» e «rimoti da qualunque perfezione», partoriti da un ingegno senza talento e senza passione!
Un secolo instabile, incapace di trovare una propria forma ben delineata e precisa, che saltella capricciosamente di moda in moda.
[…]! Con che costanza
quel che ieri schernì, prosteso adora
oggi, e domani abbatterà, per girne
raccozzando i rottami, e per riporlo
tra il fumo degli’incensi il dì vegnente!
Si può parlare di «aureo secolo» anche se l’umanità continua ancora a essere vittima di una Natura indifferente e malvagia i cui disegni sono ancora imperscrutabili?
Così natura ogni opra sua, quantunque
d’alto artificio a contemplar, non prima
vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
eternamente, il mortal seme accorre
mille virtudi oprando in mille guise
con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
la natura crudel, fanciullo invitto,
il suo capriccio adempie, e senza posa
distruggendo e formando si trastulla.
In mezzo al clamore, al gran chiasso, alle urla di quanti salutavano il XIX secolo come la nuova età dell’oro si levarono i versi nichilisti di Giacomo Leopardi che ricordavano l’impossibilità di essere felici e di porre fine per sempre alle «miserie estreme/dello stato mortal; vecchiezza e morte». Affermare ciò voleva significare essere abbandonato, deriso, criticato: «chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi,/non contraddir, non repugnar, se lode/cerchi e fama appo lui, ma fedelmente/adulando ubbidir: così per breve/ed agiato cammin vassi alle stelle.» Il giovane poeta di Recanati, con grande coraggio, senza scendere mai a compromessi, sapendo il prezzo che avrebbe dovuto pagare, non si lasciò intimorire ma proseguì la sua battaglia per svelare le dannose illusioni che si stava costruendo il suo secolo.
Finisce così? Leopardi voleva solo distruggere e basta? No, affatto! Distruggere per poi ricostruire. Distruggere era difficile ma necessario: le illusioni che dominavano il pensiero del Diciannovesimo secolo erano dannose perché nascondevano e alimentavano storture quali guerre, odi, soprusi ed ingiustizie. La Palinodia ne parla chiaramente. Riconoscere la verità e lo stato delle cose non era affatto piacevole perché voleva dire riconoscersi limitati, indifesi, in balia di una Natura capricciosa i cui disegni rimanevano oscuri, incapaci di dare un senso a «cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono», impossibilitati a essere felici.
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Liberarsi dalle illusioni voleva anche significare riconoscersi nell’altro, perché tutta l’umanità sopportava gli stessi dolori e patimenti; liberarsi dalle illusioni per abbracciare l’«arido vero» (le virtuose illusioni del passato non erano più valide!) avrebbe ridestato il sentimento di solidarietà e di amore, necessari per la nascita e lo sviluppo della «social catena»; avrebbe unito, tramite gli affetti, uomini e donne per rendere più sopportabile la «vita infelicissima dell’universo».
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch’ha in error la sede. (La ginestra oIl fiore del deserto)
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