Padri e figli nei faldoni dei versi. “Il Libro di G.” di Vincenzo Ostuni
Vincenzo Ostuni, editor della casa editrice Ponte alle Grazie, cura on line una specie di infinito, interminabile libro in versi, quasi un’opera-mondo dal titolo Faldone che, come recita la frase di presentazione sul sito, «cambia e cresce nel tempo». Una sorta di organismo vivente che non può che rivelarsi non-finito, in progress e che viene periodicamente fissato in “istantanee” editoriali. Una “fotografia” di alcune parti di questo corpus è presente ne Il libro di G., il titolo uscito dal Saggiatore e che a me ha fatto venire in mente, in una specie di associazione emotiva, Giorgio Gaber e i suoi discorsi sopra il signor G. Ostuni ha un curriculum di studi che non appartiene esclusivamente all’ambito letterario, in quanto la sua formazione universitaria comprende la Laurea in Psicologia e in seguito il Dottorato di Filosofia, un percorso che è andato di pari passo con la poesia e l’editoria (prima di approdare a Ponte alle Grazie, l’autore ha lavorato anche presso Minimum Fax e Fazi).
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G. è il figlio di Ostuni, Giovanni, che viene raccontato/cantato fin dalla prima apparizione in ecografia: «carne di luce, idolo o fiato, senza memoria, cavo di dentro, lattescente nel visus». Il libro di G. è pubblicato in un formato che somiglia a una specie di album da disegno, un formato in cui si possono dispiegare i versi per tutta la lunghezza del foglio in una sorta di dialogo continuo con l’oggetto chiaro/oscuro della visione, come una marea che si allunga sulla spiaggia per poi ritirarsi in una fuga che lascia spazio alla parola, al linguaggio che tenta di interpretare il vissuto («il séguito di una molla da flipper di balistica incerta»).
Le poesie così si perdono nel bianco che le avvolge e le disperde, in un continuo girovagare nella essenza/dissolvenza delle cose viste/riflesse/trattenute, per poi essere riacquisite dal pensiero, dalla riflessione su cosa significhi avere a che fare con un essere umano che mantiene il suo segreto e la sua distanza anche se ti è figlio e condivide i momenti più importanti della tua vita («è del resto l’esiguità dello scarto che ne fa certamente un abisso»). L’infanzia per un genitore è anche contraddittoriamente “addomesticare”, attraverso regole stringenti, «la belva urlante, il mostro, l’eroe, l’irregolato». Il genitore riacquista il sonno ma “condanna” il bambino a civis, sacrificandone il nucleo originario, con il linguaggio che è esso stesso fonte di tradimento e disvelamento del niente che ci circonda. Così “Dumani” che viene esclamato dal figlio alla sera a letto ha una varietà di sottintesi che possono anche sfociare in un semplice “nulla”, cioè soltanto nella mera parola che si allaccia al futuro prossimo, alla scoperta di quell’infinito vuoto che la vita ci chiede di presenziare, con il tempo che forse, si chiede l’autore, «è vago sentore di colpa… specchio di forme, copia di Spirito, a sé stesso simultaneo e immanente… è quasi non fosse, è difetto (colpa) d’essenza, vago sentore, pressoché inesistenza?»
Il figlio raccontato in queste poesie è anche il simbolo di tutti i figli del mondo, a cui Ostuni recita quasi una preghiera civile: «Non trovarti mai più, ti prego, figlio, rapito in scuole o su mine a farfalla: salta, continua a saltare sopra il letto». Con la parola Beslan che appare, come breve epifania di dolore, a dar significato alle atrocità dei grandi sui più piccoli, sui più indifesi.
I versi sono sempre racchiusi da parentesi, da virgolette caporali («due fenditure attentamente vicine, ciascuna doppia per la spezzatura; quattro tagli sulla gola, che prima tracheotomizzando pronunciano, poi ancora parlando recidono doppiamente l’arteria»), come se avessimo davanti, oltre a dei segni grafici, quasi delle formule algebriche che tentino di catturare il significato dei momenti vissuti, mappe utili forse a misurare il grande mare ignoto della vita, formato dai ricordi che emergono e vengono già immedicabilmente trasformati, sfigurati dal tempo e dalle parole utilizzate per visualizzare, come radar ipotetici, coordinate spazio-temporali non univocamente interpretabili.
Il tempo lega la vita delle persone care nel suo principio e nella sua fine, così Ostuni registra nei suoi componimenti anche i momenti terminali del padre, del corpo del vecchio che manca, tradisce, fino al silenzio della morte: «Ti amo papà, ho azzardato ma tu sei vivo in qualche spora o propagazione, non senti più in questo mondo/né temo l’altro, a te dicevi sempre così familiare, così che per noi era quasi noioso». Con il suono dell’anulare (“tic, tic, tic, tic, tic”) che diventa l’ultimo suono di vita del padre ormai intubato, i tubi a formare quasi un campo di Shangai.
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La poesia di Ostuni non cerca un’immediata empatia con il lettore, perché è una poesia che tenta attraverso il linguaggio di creare una mediazione speculativa sulle cose e sui fenomeni vissuti. È studio, disamina, mappatura del vivere quotidiano e dei suoi misteri quotidiani, che intreccia anche altre forme di conoscenza (matematica, filosofica) nel tentare di interpretare l’intreccio di relazioni, di faldoni, di cui è fatta la nostra vita, registrando anche lo scacco emotivo di non poter arrivare alla verità ultima delle cose (con l’eco del beckettiano «ho fallito, ho tentato; non importa, riproverò, fallirò meglio…»). Per questo il Faldone di Ostuni è un’opera viva e infinita, in continuo dialogo con il trascorrere dell’esistenza.
Per la prima foto, copyright: Janko Ferlič su Unsplash.
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