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Over50, la condanna dei senza lavoro: Mauro e l’amianto

Amianto trenOver 50 e under 35 senza lavoro, l’Italia è il solo Paese Occidentale a soffrire di queste due diverse forme di disoccupazione. Gli over 50 senza lavoro sono i nostri connazionali dannati a una ricerca senza fine, a una rassegnazione tormentosa, a una vita da esclusi o da reclusi nelle prigioni popolari delle periferie delle città. Sempre più spesso mi accade d’incontrarne quando lavoro come formatore per alcuni enti finanziati dalla Regione Puglia. La Puglia rientra nei cosiddetti “territori obiettivo”, ma quale sia l’obiettivo non è molto chiaro. Dovremmo uniformarci alle altre regioni europee, senza un motivo preciso se non quello della ricerca di omogeneità nei sistemi di welfare e nelle prestazioni erogate. Anche anni fa ero docente in questi corsi, ma allora i miei studenti erano giovani, a volte immigrati, e avevano davanti una speranza, un futuro. Le cose, adesso, sono cambiate e nelle mie classi ospito persone espulse dal mercato del lavoro e addossate al passato come condannati in attesa di esecuzione.

Amianto

Mauro ha 53 anni, è di Palo del Colle ma è nato e cresciuto al Cep di Bari. Fino a cinque anni fa faceva l’operaio specializzato per una multinazionale tedesca specializzata nella bonifica dei treni e delle vecchie fabbriche piene di amianto, questo nella zona industriale di Bari. Poi è stato messo in Cassa Integrazione, Mobilità e infine licenziato. È divorziato da tre anni, ha due figli che vivono con lui. Uno dei figli ha ereditato da lui una grave forma asmatica. Adesso frequenta corsi di formazione per gli over 50 rimasti senza lavoro, ma vorrebbe semplicemente tornare a fare il suo lavoro.

 

C’incontriamo fuori della classe, in un bar vicino al villaggio dei lavoratori, di fronte alla concessionaria della Volvo. Siamo io, lui e una barista grassoccia e carina. Prendiamo un caffè mentre fuori l’afa di quest’estate soffoca i baresi e li costringe a consumare aria condizionata ventiquattr’ore su ventiquattro. Le bandiere della concessionaria, come gonfaloni della globalizzazione, battono al vento caldo che viene dall’interno.

 

«Caldissimo, oggi», dico.

«Sì, professore. Oggi si crepa»

«E tu come stai? Tuo figlio?»

«Sempre uguale. Con questo tempo non stiamo bene, dobbiamo girare con le medicine in tasca. Mo una crisi, mo uno svenimento…»

 

Ci siamo seduti a un tavolino, sotto la griglia del condizionatore. Il sudore si trasforma in piccole schegge ghiacciate, la schiena mi s’indurisce e ogni tanto devo muovermi sulla sedia per non gelare del tutto.

 

«L’altro giorno mi hai detto che non ce la fai più», comincio come fossi una specie di consulente psicologico.

«È difficile, professo’. La vita mia è un guaio dietro l’altro»

 

Lo guardo. Ha gli occhi sempre rossi, sempre lucidi, perennemente sul punto di piangere. O forse è la sua età a renderlo così fragile, come tanti over 50 senza lavoro.

 

«Mia moglie ha deciso che non mi vuole più sentire»

«Pure i ragazzi?»

«No, quelli li sente. Li prende una volta alla settimana, ma a me non mi vuole vedere. Dice che sono un fallito, e c’ha ragione. Non c’ho più voglia di litigare»

«Un fallito? E perché?»

«Nella vita mia ho fatto tante cose, ma ho sempre lasciato qualcosa che…»

«D’incompiuto», gli suggerisco.

«Sì. Non ho mai chiuso niente. Hanno sempre chiuso gli altri per me. Mia moglie ha voluto divorziare, non io. E la fabbrica… è stata lei a mandarmi»

«La fabbrica. Me ne vuoi parlare?»

 

Sospira, sorride.

«La fabbrica era una cosa bella, mi dava la voglia di fare le cose. Io lavoravo otto ore al giorno. Arrivavo la mattina alle sei, ci spogliavamo tutti quanti e mettevamo delle tute. Sotto eravamo nudi, tutti nudi. Manco le mutande e le calze. Ci davano questa tutta leggera, bianca, e la maschera. Poi entravamo nel capannone dove stava il treno. Se era sano, se non veniva da un incidente, potevamo procedere subito. Tagliavamo le parti di metallo e le mettevamo in un carrello, poi passava un’altra ditta a recuperare il ferro»

«E se il treno era incidentato?»

«Era un casino. Dovevamo innaffiare l’amianto per non farlo volare, e dopo potevamo iniziare a raccoglierlo e a metterlo nelle buste»

«Buste?!»

«Buste giganti, professo’. Buste così», dice facendo un gesto ampio con le mani che coprirebbe l’universo. «Mettevamo tutto lì dentro, poi dovevamo chiudere, sigillare e portarlo giù, nel sotterraneo, perché ogni settimana passava un camion dalla Germania a prendere l’amianto»

«Da quanti operai era composta la squadra?»

«Dipende. Cinque, dieci… Ogni volta un numero diverso. Ma eravamo bravi. In tutto, a lavorare a Bari eravamo cinquanta. Avevamo un sacco di lavoro dalle Ferrovie dello Stato, e andavamo pure in trasferta»

«Per i treni?»

«No, per le fabbriche. Siamo andati a Chivasso e a Savona in due fabbriche vecchissime. Abbiamo trovato di tutto… Piombo, Cromo. Di tutto. A Chivasso non eravamo solo italiani»

«Chi altro c’era?»

«Dei ragazzi rumeni. Giovanissimi. Li pagavano seicento euro al mese. Lavoravano un mese e mezzo, poi li mandavano a casa»

«Senza contratto?»

«Forse, non lo so. Ma mi ricordo che non volevano indossare la maschera e che a quelli della ditta non gliene fregava niente. E non è peccato per quei ragazzi, professo’?»

«Certo che è peccato, Mauro. È un delitto», commento.

Lo invito ad andare avanti.

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Amianto tren«Poi è finito tutto. Ci hanno messo prima in cassa integrazione, poi la mobilità e mo sto qua. E non so che cazzo devo fare della vita mia»

«Vi hanno licenziato tutti?»

«No, in quaranta. Hanno tenuto dieci persone, ma da quello che so vanno spesso fuori, perché mo le Ferrovie dello Stato non hanno più bisogno di questo lavoro. Dicono che hanno finito tutto. Ma secondo me non è così. Basta vedere le stazioni. Io me ne accorgo, quando c’è amianto. Ci vuole l’occhio clinico»

«Quindi ora che fai? Lavori a nero?»

«No, mai!», esclama convinto. «Non ho mai voluto lavorare a nero. Uno che viene dalla fabbrica vuole il contratto. Prendevo mille e settecento euro, mo non prendo più niente. Vorrei andare fuori, all’estero, ma con la situazione di mio figlio non posso»

 

Mauro abbassa la testa, termina il suo caffè e mi guarda.

«Mi dici come fai ad arrivare a fine mese?»

«Ai ragazzi ci pensa un poco mia moglie e i miei suoceri, ma io non c’ho niente. Vado da mia madre, al Cep, e mangio là, ma mi viene la disperazione. Non mi piace vederla preoccupata per me»

«Quanti anni ha tua madre»

«Ottantadue. C’ha la pensione minima. Pure lei non ce la fa»

Lo guardo. Sono preso dall’ansia di regalargli qualcosa, dieci, venti euro, ma lui si schermisce, rifiuta. Ha la dignità di un condannato over 50, di uno che ha lavorato sodo e dopo una vita di stenti si ritrova senza un lavoro onesto.

«Vedi, professo’, io sono un operaio specializzato e questo cazzo di sistema mi ha dato un calcio nel culo. Non posso accettare. Io so fare bene il lavoro mio, quello voglio fare. Non voglio la carità»

«Non volevo offenderti, Mauro!»

«Nessuna offesa, ma tu sei più giovane e non puoi capire. Quando hai fatto per bene il tuo lavoro non è giusto che ti mandano a casa così, da un giorno all’altro perché se ne devono andare in Romania»

 

Mi alzo, ci alziamo, ci dirigiamo verso l’uscita. La barista ci richiama al dovere, dobbiamo pagare. Vuole essere lui a farlo, e non insisto.

«Ti devo ringraziare, professo’», mi fa una volta fuori.

«Di cosa, Mauro?»

«Erano tre anni che non trovavo un estraneo che voleva conoscere la mia situazione. L’ultimo è stato l’avvocato di mia moglie… Ah, le femmine!»

Ridiamo insieme, vittime di un’ironia tutta maschile.

«Mo me ne devo andare, professo’. Ci vediamo al corso», mi fa stringendomi la mano.

«Ci vediamo, certo», gli dico e mi allontano.

 

Il sole è cocente, sfibrante. Le bandiere della concessionaria Volvo battono più velocemente di prima. Il vento di scirocco le potrebbe strappare, come gli eventi, la crisi e la stupidità di una globalizzazione marcia hanno strappato via dalla vita Mauro e tanti altri over 50 senza lavoro: tutti irrimediabilmente messi per strada senza una ragione.

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