Over50, la condanna dei senza lavoro: Julien il povero
Julien ha 53 anni, ed è un condannato over50 senza lavoro. Abita nella periferia sud di Parigi, oltre la Cité Universitaire di Boulevard Jourdan. È stato sposato, ora divorziato. Ha fatto l’autista per una ditta di trasporti che lo ha licenziato all’improvviso. Da allora ha perso tutto e ora, per vivere, suona il clarino sul Pont Neuf.
Dopo gli attentati, Parigi ha assunto l’aria di una donna offesa ma orgogliosa. Porta avanti la sua vita con una rinnovata operosità, perché vuol dare uno smacco a chi – terroristi, politici, speculatori e opinionisti – su di lei, sulle sue periferie, ha costruito un castello di menzogne e una sottocultura dominante che ora non ha più senso di esistere.
Arrivo a Parigi sempre pieno di aspettative, e quasi mai la città mi delude. E questa volta, sapendo di andare nel cuore di una ferita storica, mi avvicino alla metropoli con un’attenzione e una curiosità senza precedenti.
Così mi trovo a passeggiare, nottetempo, nei pressi di Notre Dame. A bighellonare senza meta sul Lungosenna, per fare qualche scatto e riordinare i pensieri. Per scaldarmi contro il vento che dal fiume spira contro i rari passanti, mi alzo il bavero del cappotto. Mi faccio trascinare dalle note un po’ sbuffanti di un clarino e raggiungo il Pont Neuf dove un uomo solo, barbuto, dolce nello sguardo, suona seduto su una gelida panchina, il suo strumento a fiato. Intorno non c’è nessuno.
«Suoni per te?», gli domando.
Allora lui smette, sorride e: «Meglio per me che per nessuno, n’est ce pas?»
Una voce gentile, calma, un’ironia sottile.
«Sono italiano», dico.
«Bene. Un disperato come me»
«E scrivo per un blog»
«Nessuno è perfetto», ironizza, appunto.
«Mi occupo di disoccupati»
Qui riprende a suonare, termina il motivo che mi ha condotto da lui, prima di invitarmi a sedere sulla panchina. Gli offro una sigaretta che rifiuta. Lui preferisce la salute.
«Mi chiamo Julien e, come vedi, sono una specie di senza tetto. Una casa ce l’ho, per il momento, ma non ti c’invito perché è una tana e non so quanto ci resterò ancora. Sono indietro di sei mesi con la pigione… Di questi tempi i proprietari si son fatti più cattivi»
«Anche da noi, in Italia»
«Bah, dicono che è la crisi, ma secondo me è qualcos’altro. Non hanno saputo governar le cose, tutto qui. Vedi me, io lavoravo, facevo l’autista. Consegnavo verdure fino in Italia. Le prendevo nel sud, scendevo, arrivavo fino in Romania, qualche volta. Poi, a un certo punto, è cominciato a mancare il lavoro. Il padrone ha deciso che doveva prendere degli autisti più giovani, dalla Romania. Non ci ha pensato due volte a farmi fuori. Sai, Julien, tu mi costi. I contratti in Francia sono così e così, la previdenza sociale, le tasse. Tutte scuse per non pagarmi più. Ha spostato la ditta in Romania, perché da noi per le tasse non è come da voi. Qui si devono pagare»
«Sì, lo so»
«Allora se n’è andato. Ha tenuto il magazzino ma i camion e tutto il resto ora stanno lì. Non c’era crisi nel mio settore, ci sono solo delle teste di cazzo, putain!», esclama e si commuove. «Ho perso mia moglie e mia figlia, se ne sono andate. Ora faccio questo, ti piace?», e mi indica il clarino.
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La Senna, sotto di noi, scorre placida e fragorosa insieme. In lontananza scorgiamo la Tour Eiffel illuminata, un grande faro in questa notte buia come la vita di Julien.
«A parte suonare, non fai nient’altro?»
«Mi accontento. Spero, con la primavera, di prendere qualche spicciolo in più, ma è sempre un vivere alla giornata, mio caro. Voi ci siete abituati, del resto. Sento delle cose terribili sull’Italia»
Annuisco, perché so che i francesi sono interessati alla nostra condizione di salute economica, non foss’altro che per averci alleati nel contrasto alle politiche draconiane di Bruxelles e di Berlino.
«Ma ormai l’Europa è questa qua, mon ami. Non c’è una via d’uscita, non c’è più ragione di sentirci grandi. Stiamo tutti remando nella stessa direzione di merda», aggiunge e si rimette a suonare.
Le note si fondono al rumore della Senna, lo coprono come un vestito di metallo, una camicia di forza musicale. Poi si ferma.
«Quando ero un lavoratore come gli altri, non mi sentivo libero. Ora sono libero, ma non mi sento un lavoratore. È un problema di pensiero, che c’abbiamo nella testa. Non dobbiamo più pretendere il lavoro, ma la libertà. Fattelo dire da un francese. La libertà…»
Sembra un sermone, ma in fondo non lo è. La città è stata colpita da poco da un attentato che rappresenta uno spartiacque storico nella guerra all’islamismo radicale, l’inizio di qualcosa di inedito. E loro, gli inventori della laicità, reagiscono con gli strumenti della laicità che hanno dentro sin dalle scuole. Qui, quel che da noi sembra raffinato esercizio di morale, è norma: discutere di uguaglianza e non soltanto di lavoro.
«Il lavoro rende liberi», dico, tanto per dir qualcosa.
«Col cavolo! Il lavoro rende al padrone, non a noi», risponde. «Niente mi rende più libero del mio clarino»
«Ma il governo ti dà qualcosa per vivere?», gli domando.
«Tra qualche settimana, quando sarò per strada, Hollande dovrà darmi due pasti e un tetto nella metropolitana. Sarò forse più contento, chissà», dice e sorride.
Mi alzo, mi abbottono il cappotto, gli lascio cinque euro sulla panchina che lui rifiuta.
«Perché?», domando.
«Perché l’amicizia non ha un prezzo»
«Ma la colazione di domattina sì», obietto, e allora lui intasca la banconota e comincia un blues terribilmente triste che scende sulla Senna per concupirla con le sue note.
Mi allontano. Attraverso il Pont Neuf seguito dal clarino e penso che forse tutta l’Europa delle democrazie del lavoro è piena di condannati over50 e di liberi musicisti di strada come Julien.
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