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Over 50, la condanna dei senza lavoro: Fame&Divani

Fabbrica di divaniAnna è una condannata over 50, senza lavoro. Ha 52 anni, è barese del quartiere Libertà, dov’è nata e vive con un marito netturbino vicino alla pensione e una figlia iscritta alla facoltà di Psicologia dell’Università di Bari. Fino a cinque anni fa lavorava come cucitrice in un salottificio di Bitonto. Ci ha lavorato per quasi diciannove anni, ma tre anni fa è stata licenziata in tronco. Prima cuciva divani, ora fa la fame. Sta tentando di fare causa al suo ex datore di lavoro, perché non le sono stati riconosciuti il trattamento di fine rapporto e una serie interminabile di indennità, compresa una malattia deformante al carpo della mano destra.

Nelle immediate vicinanze del tribunale di Bari c’è via Bovio, dove un tempo si nascondevano armi e ricercati. È una delle strade peggiori della città. Termina sul cortile chiuso della scuola media Garibaldi, un edificio della fine dell’Ottocento rimesso a nuovo di recente. È in questa via che incontro Anna, una donna bruna di un metro e sessanta, curata e dignitosa. Ci siamo conosciuti in un corso per assistenti familiari, dove a me che non ho mai lavorato in fabbrica è stato chiesto d’insegnare il passaggio dal fordismo al postfordismo.

«Ciao, Anna»

Mi saluta, mi sorride e mi invita a salire a casa sua.

«Non voglio disturbare», dico.

«Nessun disturbo. Ho fatto le pulizie, la casa sta apposto»

 

Saliamo al secondo piano di una palazzina bassa come ce ne sono tante nel quartiere. Una doppia scalinata stretta e ci troviamo di fronte a una porta di legno un po’ scrostato. Ci apre sua figlia, la copia esatta della madre, solo un po’ meno in carne.

«Questa è mia figlia»

«Piacere, professore», mi fa la ragazza deferente.

«Non chiamarmi così, non stiamo in classe», obietto e la ragazza sorride.

«Facci un caffè», le chiede la madre, e la ragazza prende una porta a sinistra, la cucina.

 

Noi ci spostiamo nel salotto, un ambiente piccolo, zeppo di soprammobili, ma pulito e confortevole. Su un ripiano mobile un immancabile televisore Lcd e un lettore Dvd. Sul tavolo un centrino e una grande foto incorniciata del matrimonio di Anna.

«Tuo marito?», le domando prima di accomodarmi.

«Sì. Ci siamo sposati che ero già incinta. Matrimonio riparatore»

Ridiamo, poi arriva sua figlia con un vassoio: due tazze di caffè e una zuccheriera di argento, sfoggio di un decoro mai perso, anche nella relativa povertà del momento. La ragazza ci saluta, esce, raggiungerà delle amiche, così dice alla madre.

 

«Una brava ragazza», faccio.

«Ho avuto paura per lei. In questo quartiere se studi ti prendono per fessa. Lei è sempre stata una con la testa sulle spalle. L’hanno sfottuta sempre, ma mo si deve prendere le sue soddisfazioni»

«Se ne deve andare, questo vuoi dire?»

«Sì, glielo vado dicendo da quando si è iscritta all’università. Figlia mia, vattene che qua non ci sta futuro»

Vorrei risponderle che è in tutta Italia che non c’è più spazio per loro, i giovanissimi. Vorrei citarle dati, statistiche, sondaggi, fonti certe e accreditate, ma mi trattengo perché non mi va di spezzare l’esile filo della speranza che lega questa madre all’avvenire della sua unica figlia.

«Hai ragione, Anna», dico non senza mestizia.

Lei mi guarda, mi scruta.

 

«Tu vuoi sapere come faccio a campare?»

Annuisco. Sono qui per questo, non per compiangerla.

«Non ce la faccio, questa è la verità. Sono stata licenziata perché secondo il mio titolare ero troppo lenta. Ma sai che turni facevamo? Io entravo alle sette della mattina e uscivo alle sette di sera, ogni giorno, fino al venerdì. E se c’erano da fare delle consegne veloci di divani lavoravamo pure il sabato»

«Ma il contratto?»

«Il contratto?! Era già tanto se ce l’avevamo! A lui non gliene fregava niente. Quando lavori in un salottificio è una catena. A me arrivava il divano imbottito e le pezze di pelle. Le dovevo adattare, con le mani, e dovevo spostare il divano da sola. Sai quanto pesa un divano? Assai, ti spezza la schiena. Senza pausa, nemmeno per andare in bagno a pisciare. Mo dimmi tu. Quando una pezza di pelle non era adatta, passavo subito a un altro divano, perché lui stava dietro di me, col fiato sul collo, come…»

«Come un negriero», suggerisco e Anna annuisce sconfortata.

«Gli ho regalato la vita, a quel bastardo. Abbiamo fatto vertenza, ma il sindacato se n’è fottuto, diceva che l’azienda andava bene e che non potevamo lamentarci perché nella zona di Bitonto stava chiudendo tutto. Noi gli rispondevamo che non era così, che solo i cinesi fanno lavorare così, ma noi non siamo cinesi!»

E già, povera Anna, certo che non sei cinese, come cinese non è il tuo ex datore di lavoro, ma italiano, pienamente e fieramente italiano. Un campione del Made in Italy, uno sfruttatore come tanti.

 

«Una volta mi sono sentita male, sono svenuta. Mi ha detto di andare a casa, ma mi ha tolto la giornata dalla busta paga, il bastardo. Ho dovuto recuperare il sabato, che nel contratto non c’era scritto di lavorare pure il sabato»

«Avevate una mensa?»

«Che cosa?! La mensa?! Non avevamo il tempo di mangiare. Dieci minuti per un panino, quando andava bene, ma a turno, perché non si poteva fermare la produzione. Ci metteva uno contro all’altro», dice e sospira, guardando la tazza di caffè ancora piena, portandosela poi alle labbra.

«E i tuoi colleghi?», le domando.

«Tutti nella stessa situazione. Eravamo venti persone, tutti trattati così. Ci ha massacrato, ma almeno avevamo un lavoro. Adesso non abbiamo più niente»

«Come mai?»

«L’azienda ha chiuso. Nessuno ha voluto comprare più i nostri divani e lui ci ha messo in mezzo a una strada, senza nemmeno un grazie»

«E di cosa vi doveva ringraziare?»

«Di tutto! Gli abbiamo pure cercato i clienti, a quello. A un certo punto gli abbiamo proposto di entrare nella società, ma lui ha voluto chiudere»

«Come avreste fatto?»

«Con una cooperativa, eravamo andati anche da un avvocato, che però ci ha mandato scappando perché era un amico suo. Allora abbiamo capito tutto: non ne voleva sapere, nemmeno di vendere l’azienda. Ha chiuso, ha venduto i macchinari e mo se non sbaglio sta provando a vendere i capannoni, ma non so se ce la fa»

«Perché a Bitonto non vuole investire più nessuno»

«Sì, ma è un peccato, perché là ci sono tante persone che vogliono lavorare. I miei colleghi erano quasi tutti della zona, più giovani di me. Ma tutti bravi, con tanta voglia»

Sospira, Anna. Alla vita che aveva, che non ha più. Rimpiange il suo passato, nel suo presente problematico e scivoloso.

 

«Ora devo vivere con i soldi di mio marito, perché non mi hanno riconosciuto niente. Andiamo avanti come possiamo, ma quando devi pagare le tasse a una ragazza e poi devi pagare il mutuo…»

«Non puoi metterti a fare la sarta, in casa?»

«Guarda», mi risponde mostrandomi con cupa fierezza la sua mano destra.

Una cicatrice corre come una ruga intorno al pollice.

«Mi hanno operata e non mi è stata riconosciuta la malattia. Non posso più cucire»

«Per questo non hai cercato lavoro in un altro salottificio?»

«Ma dove andavo? Natuzzi sta chiudendo, e tutto il settore è in crisi. Chi mi prende?»

«Solo per questo?», insisto perché intuisco che mi sta nascondendo qualcosa, qualcosa di più intimo.

«Sono vecchia.Ci ho provato, ma mi hanno detto che sono vecchia, che non posso cucire, che non sanno che cosa se ne fanno di una come me. Non possono nemmeno farmi un contratto di apprendistato, perché sono specializzata»

Abbassa la testa, Anna e poi la rialza velocemente. S’è commossa.

«Sei troppo brava, troppo vecchia e inservibile», dico.

«Proprio così. Non so più che fare. Faccio questi corsi della Regione. Sono pagati, ma non è il settore mio. Non ce la faccio a pensare che non servo a niente. Che me ne frega di andare a fare le pulizie? Io voglio tornare a lavorare… A fare divani, non la fame»

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Fabbrica di divani«Quanto ti manca alla pensione?»

Scuote la testa rassegnata.

«Troppo. Troppo assai!»

Troppo. Troppo assai. Troppo per una donna che s’è rovinata le mani caricando divani, cucendo pezze di cuoio, adattando a un telaio le forme dello stile italiano, della qualità italiana.

 

«Ma dimmi una cosa: tu eri brava?»

«Bravissima! L’azienda è stata premiata per la qualità. E secondo te chi faceva il lavoro? Noi, noi che stavamo là. Lui pensava solo a fare i soldi, ma nemmeno bene, perché alla fine non ce l’ha fatta»

«Secondo te perché?»Anna alza le spalle. Si sforza di riflettere, di cercare una ragione del fallimento dell’azienda presso la quale lavorava. Poi le si illuminano gli occhi. Un’intuizione.

«Una volta disse che dovevamo essere più veloci, più veloci. Che dovevamo lavorare sempre di più, perché ci stavano fregando»

«Chi?»

«Non ce lo disse»

«Ma non vi pagava di più»

«Noi correvamo, ma a furia di correre le cose non vengono sempre bene. Dovevamo scartare le pezze tagliate male, mettevamo da parte le imbottiture che non si adattavano, ma lui s’incazzava. Se uno vuole una cosa fatta bene deve aspettare, che eccheccazzo!»

«Ma il prezzo dei divani si abbassava?»’

«No, scherzi? Lui manteneva gli stessi prezzi. Quelli del commerciale glielo dicevano che non poteva continuare così, che stava per saltare»

«E alla fine è saltato»

«Sì. Siamo saltati tutti all’aria», dice Anna senza mezzi termini, mimando con le mani un’esplosione. «All’ufficio di collocamento ormai non sanno più che dirmi. Vado avanti con la speranza, ma ormai…»

 

Non ho altro da chiederle, né ho voglia di insistere in questo racconto triste e lacerante. Vorrei avere una soluzione, suggerirla a qualcuno, ma sarei ascoltato? Non è l’Italia il Paese delle mille ricette, dei diecimila cuochi e della fame? Allora mi alzo e faccio per andarmene, ma Anna mi ferma con un braccio.

 

«Io non ce la farò, lo so. Ma voglio dare una speranza a mia figlia. A mi figlia!», mi dice con la voce rotta dal pianto.

«Falla andare via da Bari. Lontano, però. Lontano», le rispondo e lei mi fissa assentendo.

Restiamo così, io a guardarla, lei in singhiozzi nella sua compiuta, matura dignità.

«Sai cosa mi fa più rabbia?», mi domanda dopo qualche minuto, senza esitazione. «Ero una donna indipendente. Il mio matrimonio non va bene, ma ora non posso decidere più niente della vita mia»

 

Non cosa risponderle, perché di famiglie come la sua ce ne sono tante. Sono quelle che sfuggono ai censimenti, perché solo i nostri cuori tengono il conto dei sentimenti morti.

«Prova a stare su, Anna. Lo meriti», le dico più per cortesia che per convinzione, e lei mi sorride accompagnandomi alla porta.

Prima di andar via, getto un’ultima occhiata all’appartamento, al suo divano. La parola che mi viene in mente è “decoro”. Questa è Anna: una condannata over 50 senza lavoro ma piena di lacrime amare.

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