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Occhio all’italiano! Le colpe di un insegnamento a metà

Studenti in aulaSe si guarda con maggiore attenzione all’insegnamento della lingua italiana nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, balza subito all’occhio non solo che la didattica in generale non ha recepito alcune delle Dieci tesi per una educazione linguistica democratica del GISCEL, ma pure che si fatichi a cambiare non tanto il proprio metodo quanto i contenuti dell’insegnamento; senza adattarli, cioè, a una lingua che si evolve, lasciando indietro determinate strutture, prendendone delle altre e mettendone da parte altre ancora: questo perché un sistema linguistico, di qualsivoglia epoca, è strumento di una comunità di parlanti, immerso, quindi, nella storia e suscettibile di usi diversi a seconda di contesti e referenti; insomma, non un coacervo di regole senza spiegazione.

Il cambiamento, dunque, è ostacolato: qualcuno preferisce appoggiarsi alle sicurezze maturate nel corso di una carriera pluriennale (e sicuramente rispettabile); qualcun altro gli è ostile a priori, forse per ideologia e per il modo in cui concepisce la didattica e la vita in generale. L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma le conclusioni non cambierebbero: non è un azzardo sostenere che tale modo di fare lascia indietro – perciò danneggia – non tanto il docente stesso, che comunque ha il suo posto fisso e le sue sicurezze, quanto l’allievo, che nel docente vede una fonte sicura di informazioni e che con tali informazioni costruisce buona parte del percorso formativo secondario. 

Alla luce di tutto questo, cosa si potrebbe rispondere a coloro che continuano a insegnare che i pronomi personali soggetto di terza persona sono “egli” ed “ella”, senza spiegare che nello scritto vanno usati con la dovuta parsimonia? E cosa si dovrebbe rispondere a coloro che, comunque soggetti ai vincoli dei programmi ministeriali, continuano a basare l’insegnamento della grammatica italiana sulla serie infinita di complementi che caratterizzano l’analisi logica? Non è un segreto che uno dei momenti più difficili dell’apprendimento riguarda il corretto uso dei modi e tempi verbali: perché, allora, non concentrarsi su questi, invece di insistere su un’analisi del periodo che, per quanto utile, può benissimo convivere con altri tipi di esercizio? L’impressione, insomma, è che l’insegnamento della lingua italiana sia rimasto indietro, adagiato sulle certezze di un tempo che però è passato e desideroso di tutelarsi da dubbi e incertezze che la lingua, in quanto sistema di comunicazione, impone di risolvere o quantomeno di affrontare.

Nel suo L’ora di italiano. Scuola e materie umanistiche (Editori Laterza, 2010), il linguista Luca Serianni affronta la questione e propone soluzioni concrete nel capitolo Grammatica, sulla scorta dell’esperienza maturata in anni e anni di attività di didattica; l’attacco, seppur velato, non è solo al docente adagiato sulle sue certezze, ma pure agli stessi strumenti dell’insegnamento:

«Nell’insegnamento, e in generale in qualsiasi processo comunicativo, il problema principe è gerarchizzare le informazioni in vista dell’obiettivo da raggiungere. Qual è l’utilità di mettere tutto sullo stesso piano [fa riferimento all’eccessiva affinità tra i programmi delle scuole medie e quelli delle superiori, ndr], invece di insistere sui tradizionali punti deboli che emergono dagli scritti o anche dalla mediocre comprensione dei testi letti? […] Diverse – prosegue, poi, parlando di sintassi – le competenze da acquisire nel caso […] delle completive. Qui l’uso è più rigido, in particolare per la consecutio; ma anche quanto ai modi verbali intervengono restrizioni semantiche […] e diafasiche […]. I nostri manuali sembrano interessati soprattutto alla classificazione teorica delle varie completive. […] Dei vari esercizi proposti […] quelli che sondano la padronanza del corretto uso di modi e tempi sono soltanto quelli di completamento, almeno quanto al corretto uso dei modi […]), e quelli di trasformazione».

L’analisi del linguista, insomma, è chiara: prevalgono certi argomenti su altri, che, però, non solo non sono meno importanti, ma risultano essere persino punti deboli dell’allievo; è evidente, dunque, che, per quanto si possa essere ostili al cambiamento, certe prese di posizione debbano lasciare spazio, in estrema sintesi, all’utilità (soprattutto nelle scuole medie e nel biennio delle superiori, durante i quali all’allievo si presenta l’importante opportunità di imparare a scrivere e argomentare bene).

Ma Serianni continua:

«Ci si lamenta, non sempre a proposito, della decadenza del congiuntivo; ma poi non si pensa di illustrare – con giovamento sia per la prassi linguistica sia per la riflessione sulla lingua – tipiche situazioni di dubbio. Vediamone una: perché si dice “vorrei che tu studiassi”, con apparente violazione della correlazione dei tempi (vorrei è un presente e ci si aspetterebbe nella completiva il congiuntivo presente, come in “voglio che tu studi”). Perché il condizionale di volere e di altri verbi indicanti un desiderio o un’aspirazione richiede la reggenza tipica dei verbi al passato: se usa il condizionale, il parlante mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come se fosse già alle spalle (quindi: “vorrei che studiassi”, ma non m’illudo che tu lo faccia; “voglio che studi”, e sono convinto che la mia autorità ti costringerà a farlo). […] La parte propriamente teorica – poi precisa – tanto nelle grammatiche per la scuola media quanto in quelle per il biennio […] è poco utile per far riflettere sulla lingua, perché veicola classificazioni di debole capacità esplicativa, o addirittura ricalcate sulla sintassi latina e costrette a forza sul letto di Procuste della grammatica di una lingua strutturalmente del tutto diversa, seppur derivata da quella».

Il linguista elenca altre mancanze dei manuali, che, in quanto redatti da esperti e talvolta da docenti, essendo seguiti dagli insegnanti stessi, sono a loro volta mancanze di tutto un sistema che si ostina a voler restare immutato.

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PunteggiaturaUno dei settori che più di tutti manca di attenzione da parte degli insegnanti è senz’altro quello della punteggiatura: in tale stato di cose, coloro che hanno ricevuto dei validi insegnamenti in questo ambito sono stati senz’altro fortunati; fortunatissimi, se qualcuno li ha abituati, per esempio, all’uso del punto e virgola, segno di interpunzione che molto spesso si fatica a comprendere. Ma, a prescindere dalle questioni più complesse, si può davvero pretendere che un futuro cittadino sappia ragionare, senza che abbia imparato quale sia la differenza tra un punto e una virgola? Chi non riesce a strutturare il pensiero, scandendone il ritmo e rispettandone la struttura sintattica, può davvero ritenere di saper scrivere? Tutte domande retoriche, che non solo hanno un’ovvia risposta ma pure una causa altrettanto scontata: forse qualche insegnante – più di qualcuno, a dire il vero – dovrebbe pensare meno a complementi e proposizioni varie e più a esercizi pratici, che hanno una indiscutibile utilità (fermo restando che le cose non si escludono a vicenda):

«Quanto alla punteggiatura – scrive Serianni –  l’offerta non è adeguata; talvolta nemmeno quantitativamente, quasi sempre qualitativamente. In genere manca la consapevolezza delle funzioni del punto e virgola, che serve – oltre che per separare unità complesse – per segnalare, sempre in concorrenza col punto fermo o con i due punti ma con diverse implicazioni stilistiche o espressive, una diversa tematizzazione o per mancare uno snodo argomentativo importante davanti a un connettivo “forte”. La conseguente omissione del necessario precetto a non sovraestendere l’uso della virgola […] si riflette nell’infelice formulazione di alcune verifiche. […] Nella fattispecie, occorre evitare l’affermazione – grettamente semplicistica – secondo la quale la punteggiatura è il dominio della soggettività e, insomma, si può fare più o meno quel che si vuole».

Più volte il linguista parla di riflessione sulla lingua, e forse è proprio questo che manca nei cinque anni di scuola media e biennio di scuola superiore: la volontà (oppure la capacità?) di far intendere a chi ascolta, e applica ciò che ha ascoltato, che il mezzo usato tutti i giorni per parlare con gli amici, scrivere un’e-mail o un SMS non è uno spinoso insieme di norme che non hanno senso e che qualcuno ha imposto; esistono zone grigie e zone meno grigie, problemi di facile, media, difficile soluzione (quando non ne ammettono maggiori), e tutte queste zone vanno fatte conoscere a fondo: distinguere un complemento oggetto da un complemento di termine è senz’altro importante, ma sapere che “province” può essere scritto anche con la “i” lo è ancor di più (visto il motivo che giustifica entrambe le grafie).

Non solo mancanza di contenuti, dunque, ma anche assenza di confronto e ragionamento: consapevoli di queste mancanze, quali e quante pretese possono essere davvero avanzate agli studenti?

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