Norman Rockwell a Roma: l’arte di raccontare la normalità
Norman Rockwell ha attraversato quasi un secolo di storia americana, raccontando la “normalità” di quattro generazioni di statunitensi: quella nata, come lui, a cavallo fra Ottocento e Novecento, che di guerre mondiali ne ha combattute e temute due; i loro figli, nati fra queste guerre, che hanno imparato a sperare solo da adulti; i “fortunati”, quelli che avrebbero avuto vent’anni nei dorati anni Sessanta e alle lotte per la vita avrebbe sostituito quelle per l’identità; e infine chi, proprio a metà dei Sessanta, si sarebbe trovato a sei anni a combattere per un diritto che sembrava ormai scontato nella “land of freedom”. Il diritto di andare a scuola.
Proprio da quest’ultimo tipo di lotta mi piacerebbe partire per raccontarvi la potenza pittorica di Norman Rockwell, in mostra (per la prima volta in Italia) a Roma a Palazzo Sciarra. Mi riferisco al quadro che fu, com’è accaduto per quasi tutte le opere di Rockwell, prima di tutto un’illustrazione per una delle più importanti riviste americane («Look»), creando un forte dibattito sui diritti degli afroamericani.
Il titolo dell’opera The Problem We All Live With (ossia “il problema con cui tutti conviviamo”) è perfetto per la scena che racchiude. Rockwell, partendo da un caso di cronaca, dipinge il primo giorno di scuola di una bambina afroamericana a New Orleans nel 1964. Sebbene la segregazione razziale nelle scuole sia stata formalmente debellata in USA nel 1954, solo nel 1960 iniziano in Louisiana le prime azioni concrete per lasciare che bianchi e neri frequentino le stesse scuole. Arriviamo così al caso di Ruby Bridges che, a sei anni, deve essere scortata da quattro agenti federali per poter arrivare a scuola senza che nessuno la fermi o la insulti. Alla fine Ruby frequenterà una scuola comunque segregata, poiché i genitori degli altri studenti (tutti bianchi) si rifiuteranno di esporre i loro figli al “contagio” di una bimba di colore.
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Norman Rockwell con un’immediatezza rara (che nasce da un attento studio del personaggio e dell’emozione che si vuole suscitare nello spettatore, nonché da numerosi fasi intermedie di lavoro, che lo portano dal bozzetto al quadro definitivo) ritrae Ruby che “marcia” al passo della sua scorta, evitando per pochi centimetri un pomodoro lanciatole addosso. Nel suo candido vestito, stringendo il suo quaderno con le stelline, Ruby ha paura, certo che ne ha. È sola contro un’intera città, le stesse teste della scorta vengono tagliate da Rockwell per enfatizzare la centralità e la solitudine del momento che la bimba sta vivendo. Eppure Ruby continua a camminare. E noi, osservando questo dipinto, a cinquant’anni di distanza, viviamo il racconto della giornata di Ruby con la sua stessa intensità e partecipazione provata dalla protagonista.
Ecco perché questa mostra non è soltanto un modo per entrare a fondo nelle idee e nei valori, più o meno commercializzati e confezionati, di una nazione, ma è soprattutto un viatico per entrare nelle storie dei suoi abitanti dal loro punto di vista. Rockwell ci regala sensazioni visuali che possiamo amare o odiare, ma difficilmente potremo ignorare, s’innestano nelle esperienze più normali dell’essere umano e per questo l’immedesimazione è sempre lì, a girarci intorno. Combatterla sarebbe uno sforzo inutile.
Entrate nei racconti di Norman Rockwell senza preconcetti, nelle sue campagne basate sui buoni sentimenti come nelle sue lotte per i diritti umani, lasciandovi affascinare dalla sua ironia (un’opera per tutte Art Critic del 1955).
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