Noi non siamo la nostra malattia. Intervista ad Anna Chisari
Anna Chisari racconta con determinazione e commozione gli stati d’animo che ha attraversato dalla scoperta della sua malattia fino alla guarigione. Il Linfoma non Hodgkin che l’ha colpita è stato non solo il nemico da superare ma anche qualcosa da cui non farsi catturare. È per questo che Anna è riuscita a fare proprie le parole di Emma Bonino («Io non sono il mio tumore») e a rivolgerle non solo a se stessa e alle persone ammalate, ma soprattutto a chi si prende cura di una persona malata. Il suo dunque è un invito a non far coincidere nessuno con la sua malattia, a porre sempre al centro la persona, a dedicare a lei le nostre attenzioni giorno per giorno.
C’è un cinghiale nell’orto (Edizioni del Gattaccio) è il libro con il quale Anna ha deciso di raccontare e condividere la sua esperienza, con la speranza che possa offrire conforto ad altri. Ma quello di Anna è un progetto più ampio che non si concretizza solo in un racconto fatto di parole. Con Rinascita Fisica Anna ha infatti testimoniato la sua ripresa, giorno dopo gorno, con una serie di foto scattate dopo l’ultima seduta di chemio, ogni giorno alla stessa ora, le 12,03, dovunque fosse, con chiunque e qualunque cosa stesse facendo. «Istantanee che testimoniano, giorno dopo giorno, il miglioramento della mia faccia, del mio corpo, il progressivo passaggio dallo stato di malata a quello di sana. Un itinerario attorno al colorito della mia pelle. E non solo.»
Con Anna abbiamo parlato della sua malattia, della sua vita durante e dopo, del rapporto con gli altri e dell’importanza di discuterne e continuare a farlo.
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Il suo è un racconto della malattia e della guarigione. Può provare a raccontare cosa c’è nel mezzo a chi non ha vissuto in prima persona quest’esperienza?
La malattia è un fatto enorme nella vita di una persona. Coinvolge ogni aspetto dell’esistenza. Travolge e pulisce, divora e valorizza. Tra la malattia e la guarigione, che non è sempre scontata e facilmente raggiungibile, c’è tutto. Tutto quello che hai fatto, tutto quello che sei riuscita a costruire. C’è paura, c’è speranza, c’è condivisione, c’è bruttezza e c’è perfino bellezza. Ho incontrato medici e infermieri bravissimi che con grande professionalità hanno affrontato insieme a me un Linfoma non Hodgkin, ho pianto compagnucce di stanza delicate o scontrose che purtroppo non sono guarite, ho consolato amiche disperate e impaurite per me, ho cancellato numeri di telefono di persone che pensavo vicine e che invece si sono dileguate.
Lei scrive: «Il filo sottile tra la salute e la malattia è una coulisse in vita!» Può spiegarci più nel dettaglio cosa intendeva dire?
La coulisse è quella del pigiama. In ospedale come in qualsiasi altro posto ci si veste di qualcosa, non da qualcuno. Quella veste precisa definisce lo stato di malata, ti differenzia dai medici, dagli infermieri, dai “sani”, non è ghettizzante, da’ ordine alle cose. Io sceglievo con cura i pigiami, malata ma con gusto ed eleganza, tutti i miei pantaloni avevano una coulisse che stringevo attorno al mio corpo che cambiava e si allargava.
Vorrei toccare un argomento spinoso, partendo da un breve passaggio del libro: «Non resisto al dolore, non resisto alla scomodità. Sarà mica una colpa?» Il senso di colpa è una componente ancora in gioco nell’affrontare la malattia? E come si riesce a liberarsene?
Spero che nessuno si senta mai colpelvole di essere malato. Nessuno sceglierebbe la malattia, che invece arriva senza nessun rispetto per le scelte. Il senso di colpa non ha motivo di esistere in una persona che si ammala per milioni di ragioni che prescindono dalle sue azioni, dai suoi costumi, dai suoi usi. La malattia è democratica, paritaria e imprevedibile.
Il mio è un senso di colpa antico, sono stata una bambina molto malata, e i miei genitori erano preoccupati per la mia salute, erano tristi e tesi, temevano che morissi. E io avrei voluto sollevarli da quel dolore, mi sentivo in colpa perché non ci riuscivo.
Qualche anno fa Emma Bonino, quando rivelò pubblicamente la sua malattia, disse: «Io non sono il mio tumore.» Cosa significa per lei un’affermazione come questa?
Condivido pienamente l’opinione di Emma Bonino, ma tutti ti associano alla tua malattia, forse per la pelata, per il colorito giallognolo o per il corpo sformato non prescindono dalla patologia, e a questo proposito rispondo con una frase del libro:
«Come girano i pianeti della mia galassia attorno a questa cometa velenosa? Sono tanti gli altri. Sono in pochi a sapere come si fa. La maggior parte di essi parla con il mio tumore. Io non ci sono più. Non sono la loro attenzione, è il linfoma il vero soggetto di molte conversazioni. È quel misterioso, sconosciuto e temuto linfoma che li terrorizza e li attrae, e il dubbio racchiuso dentro il mio corpo che vogliono ascoltare. Sono le cellule impazzite che vogliono vedere. È il contatto con l’inconoscibile che li porta davanti al mio letto d’ospedale, sul mio divano.»
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Sono sempre più i personaggi pubblici che decidono di parlare della propria malattia. Quali possono essere le conseguenze positive? E i rischi?
Parlarne fa bene a chi è malato. I malati non devono essere lasciati soli. Io non sono stata lasciata sola. Condividere per conoscere è fondamentale, per non spaventarsi. Ogni esperienza è personalissima, ogni percorso è unico, niente è uguale per tutti, anche se tutti siamo uguali davanti alla malattia. Il rischio è nella superficialità di chi parla, ma anche di chi ascolta. È un tema così delicato che raramente sopporta l’omologazione dei social. Bisogna essere molto attenti perché sono tanti quelli che non sono guariti, bisogna usare le parole che considerano il dolore e lo smarrimento di chi ha perso qualcuno. Di sicuro l'hashtag che uso #insiemesifarecinto per me ha un grande valore, è un modo per non correre rischi.
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Per la prima foto, copyright: Matheus Vinicius.
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